Di fronte agli orrori dell’Isis, alla spettacolarità della processione di padre Pio, alla tragedia delle morti di adulti e bambini in mare, il maltrattamento delle persone disabili potrebbe sembrare un problema minore, che rischia di fare poca notizia. Ancora più banale può apparire la cronica mancanza di diritti, la solitudine dei familiari, il dramma del dopo di noi. Ma la sofferenza non può avere gerarchie e la guardia non deve essere abbassata per evitare che una colpevole disabilità sociale amplifichi le ineluttabili disabilità personali.
I maltrattamenti alle persone disabili, come qualsiasi altra forma di abuso, rischiano di creare un pabulum sociale molto pericoloso che va dal bullismo scolastico alla riproposizione della cultura manicomiale e quindi violenta e non rispettosa delle persone. Riporto come esempio gli ultimi fatti di cronaca. L’attore Francesco Nuti maltrattato dal proprio “badante”, impossibilitato a esprimersi con il linguaggio, scrive un semplice e inquietante messaggio: “Ho paura”. Sergio, un uomo disabile di 50 anni, ospite dell’associazione Loich Francis-Lee, accompagnato al pronto soccorso, nonostante codice verde, aspetta sette ore fin quando, non potendo più “pazientare”, deve uscire senza essere stato visitato per ricominciare il calvario da qualche altra parte. Per finire, i disgustosi maltrattamenti in un istituto per ragazzi disabili a Grottaferrata, dove non capisco l’attenzione a non mostrare i volti delle persone maltrattanti, perché in questi casi la gogna mediatica e la vergogna personale, se ancora possibile, sarebbe utile.
Le persone disabili sono persone fragili, spesso profondamente consapevoli della loro diversità, di non poter arrivare dove arrivano gli altri, di non poter amare gli stessi uomini e le stesse donne che amano gli altri e verso i quali possono provare la stessa attrazione e gli stessi sentimenti. Tendono pertanto ad andare con fiducia verso chi è “sano” e a non gradire, spesso, lo specchio di un altro disabile. Maltrattare queste persone significa tradire la loro fiducia, un gesto vigliacco che somma un trauma all’altro.
La gestione pubblica della disabilità era degenerata negli anni ’50 e ’60 fino a richiedere una legge nazionale che chiudesse i manicomi diventati istituzioni di sadici maltrattamenti mistificati come cura. Da quel momento l’istituzione di molte case famiglia, comunità terapeutiche, centri diurni ha reso i luoghi di assistenza molto più umani e funzionali ma, allo stesso tempo, meno visibili e in qualche modo meno controllabili. Inoltre le amministrazioni pubbliche hanno scelto di affidare gran parte della gestione dell’assistenza a cooperative, spesso degnissime ma a volte indegne, come i fatti di Roma ci hanno mostrato.
Sicuramente non viviamo in tempi facili, ma la qualità della vita delle persone disabili è una delle bandiere della dignità di una nazione. Chi si trova nella condizione di avere un familiare problematico non deve mai essere lasciato solo, l’istituzione familiare è troppo fragile per supplire alla mancanza di welfare. Caso per caso bisogna trovare quella convergenza di energie e di risorse che veda le istituzioni pubbliche come un modello a cui rivolgersi con fiducia e non una Caienna da cui fuggire. Gli episodi di Grottaferrata danneggiano non solo le persone maltrattate, ma il senso stesso delle istituzioni e rischiano di svilire ulteriormente quell’unità d’intenti fra politici, tecnici e gente comune che è stato il punto di forza per creare il servizio sanitario nazionale.