Il guaio di disporre di Netflix è che quando si fanno un’idea di te non la cambiano a nessun costo. Così noi al momento di abbonarci indicammo una qual propensione per i film di azione, e da allora il catalogo che costantemente ci si para dinanzi, aggiornato fino all’ultimo arrivo nel genere, è simile a un mattatoio, dove si spara e si ammazza dall’inizio alla fine. Così c’è voluta la segnalazione di un’amica, fortunatamente per noi costretta a letto dall’influenza ma in grado di manovrare il telecomando, per andarci a cercare con la faticosa ricerca “alfabetica” (che vuol dire scrivendo il titolo nell’apposito spazio) Master of None, ovvero il Friends del XXI secolo. Dall’inizio alla fine la storia si sviluppa lungo gli incontri di un indiano (dell’India), americano di seconda generazione, integrato culturalmente negli Usa ancor più di Hillary e Trump, ma più di loro alle prese con i tic e i luoghi comuni che ingombrano le teste d’ogni colore, compresa la sua stessa.
Perché, nonostante tutto lui non è un americano consolidato, ma uno che lo sta ancora diventando, e dunque abbastanza diverso da porsi problemi di senso e coerenza laddove per i più gli automatismi del costume mandano avanti automaticamente la macchina del senso comune. Per cui il vivere con gli altri consiste in una serie di incontri e scontri fra sessi, razze, generazioni e funzioni sociali. Dove non c’è nessun razzista, ma nessuno si scorda mai la razza di chi gli si para davanti: dove gli uomini sono tutti, correttamente, femministi e le donne tutte emancipate, ma nei rapporti ci si guarda bene dall’aprirsi completamente.
A noi la struttura del racconto e l’assortimento dei caratteri sono apparsi come una sorta di “format cognitivo”, che per spremere i tanti personaggi li pone in collisione come fossero le particelle elementari nell’acceleratore di Ginevra. Viene prodotto, non a caso, dal Paese che ospita la più articolata composizione di razze e costumi; un insieme di distinzioni e collegamenti che (siamo sulla buona strada anche noi in Italia) sarà la condizione più normale del futuro tranne dove e finché si vive estranei allo scambio globale di cose, braccia e cervelli. È un format, ci è venuto da chiederci, come i quiz, i talent show e Braccialetti rossi, adattabile ad altre realtà, a partire dalla nostra? In teoria sì. In pratica richiederebbe uno sforzo enorme e preventivo di conoscenza della società che si vuole rivelare a se stessa. Di certo servirebbe a tritare le separatezze che ci sballottano fra certezze smarrite e prospettive incognite. E siccome capire è uguale a salvarsi, l’impresa potrebbe valere la spesa.