44mila condivisioni dal solo sito della Rai per il video di Ezio Bosso. Tra Facebook e social vari arriveranno ALMENO (ma saranno sicuramente di più) a un milione. Di condivisioni, non di like. E la differenze è sostanziale. Quando condivido qualcosa, lo faccio per tre principali ordini di ragioni:
1) Condivido perché mi trovo in accordo col contenuto proposto;
2) Condivido non solo perché sono d’accordo, ma anche per far riflettere gli altri;
3) Condivido perché sono d’accordo e penso che il comportamento altrui sia divergente rispetto al contenuto in questione.
Nel suo intervento a Sanremo, Bosso ha parlato di qualcosa che riguarda chiunque di noi, toccando corde che in molti hanno generato pianto o emozione proprio perché sostenute da questo minimo comune denominatore: il parlare dell’essere umano e della sua condizione di essere vivente dotato di raffinata capacità di espressione (Bosso – non a caso – fa musica). Qualcosa, quindi, che si presta molto bene a incanalarsi in uno dei tre casi sopra citati.
Nel vedere tutte quelle condivisioni, mi sono venute in mente alcune domande: se (almeno) un milione di persone sono convinte che uno dei problemi di questo mondo sia l’assenza di ascolto e di assunzione di responsabilità per l’altro, perché il mondo va – effettivamente – nella direzione opposta? Perché anche nel nostro quotidiano e nelle nostre piccole e inutili relazioni di qualsiasi tipo siamo così incapaci di comunicarci l’un l’altro, di comunicare insieme? E soprattutto: tutto questo condividere non è forse una dimostrazione del fatto che siamo sempre convinti che questo abisso sia attribuibile a mancanze dell’altro?
Questo è ciò quello mi preoccupa di più: se la condivisione ha un intento “pedagogico” e un milione di persone condividono proprio quel contenuto, devo credere che questo milione di persone stia condividendo per riflettere su se stesso o perché è in realtà convinto di essere nel giusto e vuole richiamare gli altri all’ordine? Mi viene da dire, però, che se quello di Bosso fosse stato recepito come un invito rivolto a ogni io, perché non limitarsi a guardarlo una, dieci, cento volte, nell’intimità delle proprie cuffie?
Io non ho risposte, ma mi spaventa il fatto che parole vere, reali, sentite e pensate, diventino uno dei tanti contenuti che circola in rete, se non addirittura un meme: come se invece di interrogarci sull’abisso che Bosso ci ha schiaffato in faccia con le sue parole, diventi permeante soltanto il notare che un abisso esista. Come se il discorso di Bosso non fosse un invito all’azione, come se venisse recepito non come rivolto a ognuno di noi, a qualsiasi io (anche al suo stesso io), ma a tanti tu perennemente opposti, perennemente lontani, che si osteggiano l’un l’altro. Come se non avessimo noi stessi bisogno di rinnovarci ogni giorno, come se ogni mancanza possa essere sempre e solo recriminata a un’assenza di volontà nell’altro.
E domani? Domani ci saremo scordati. Forse perché ci accontentiamo troppo: ci accontentiamo di noi stessi in primis, ci accontentiamo delle nostre risposte facili, ci accontentiamo di “notare” che delle difficoltà ci sono e che in qualche modo ci penalizzano. Ma quando si tratta di agire tutto viene meno: solo tante belle parole, tante buone intenzioni, che fosse mai riuscissero a diventare qualcosa di più. Fosse mai che realmente capiamo che dobbiamo ascoltare l’altro, mettendoci in gioco e in discussione in prima persona.
Domani forse non cambierà nulla. Non cambierà perchè ci ostiniamo a non capire che invece di circondarci di inutili e isolanti certezze dovremmo solo farci molte, ma molte più domande.