In questi giorni all’interno dell’Università sta montando la protesta da parte dei docenti per bloccare la VQR, la Valutazione Quadriennale della Ricerca. Può essere bollata semplicemente come il rifiuto da parte dei professori universitari ad accettare un qualsiasi tipo di valutazione oppure c’è qualcosa di più? L’università italiana è stata testimone negli ultimi anni di una serie di provvedimenti che hanno avuto molto il sapore di tagli lineari e per nulla di razionalizzazioni. In una recente lettera pubblicata da Nature, il fisico Giorgio Parisi e altri 69 docenti italiani hanno evidenziato come lo sbilanciamento tra quanto l’Italia contribuisca alla ricerca europea (con circa 900 milioni di euro) e quanto poco riesca a portare a casa (600 milioni di euro). Il risultato è che il nostro paese finanzia la ricerca degli altri stati europei (essenzialmente quelli che meno ne avrebbero bisogno) con circa 300 milioni di euro. Per un confronto, i PRIN, i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale sono stati finanziati solo con circa 90 milioni di euro dopo tre anni di blocco.
La petizione (che ha già raccolto oltre 10.000 firme) lanciata da Giorgio Parisi è qui. Tuttavia, anche chi riesce a trovare fonti alternative di finanziamento si trova di fronte a delle difficoltà burocratiche impensabili per spendere questi benedetti soldi. L’obbligo da parte dell’università di utilizzare per gli acquisti il MePa, (Mercato Pubblica Amministrazione) ha causato a chi ha ancora voglia di fare ricerca delle difficoltà enormi come descritto da un sublime articolo del Prof. Nicola Casagli.
La centralizzazione degli gli acquisti per grandi volumi di forniture come la carta igienica o quella per fotocopie è sicuramente una novità positiva nella Pubblica amministrazione. Lo stesso però non è vero per le esigenze della ricerca. Comprare un oggetto da pochi euro tramite il MePa (es. un cacciavite) può significare perdere una quantità di tempo inimmaginabile da parte di un numero elevato di persone, mentre sarebbe estremamente più semplice poter direttamente acquistare la cosa e essere rimborsati tramite scontrino, come succede per i parlamentari. Ci fidiamo di più dei docenti universitari o dei politici?
Di fronte a tutto questo, l’applicazione della “meritocrazia” nei confronti dei docenti presso l’università Italiana si è materializzata in un blocco delle retribuzioni con congelamento dell’anzianità di servizio per gli ultimi cinque anni. Non serve ricordare come questo provvedimento sia iniquo soprattutto verso i giovani, che si trovano la carriera bloccata, con un danno più elevato in funzione di una minore anzianità. Quando ai docenti sono state richieste le pubblicazioni per “valutare” le varie università tramite la VQR, è stato naturale che sia montata una protesta generalizzata. Uno dei primi a muoversi è stato il Prof. Carlo Ferraro, che non ha certo richiesto gli arretrati ma almeno il recupero dell’anzianità perduta come successo in praticamente tutte le altre categorie del pubblico impiego. Tra le motivazioni non c’è solo quella banale di avere più soldi, ma soprattutto un riconoscimento della dignità calpestata dei docenti universitari. La sua lettera è stata firmata da oltre 14.000 docenti. Le motivazioni di uno #stopVQR sono invece espresse in un modo più variegato da parte del sito ROARS, che invece pone l’accento sui criteri difficilmente comprensibili di questa specifica valutazione.
Il boicottaggio della VQR è condiviso persino da docenti “al di sopra di ogni sospetto”, come il matematico Giuseppe Mingione di Parma, già professore ordinario a 33 anni e vincitore di uno dei primi prestigiosissimi ERC Starting Grant, il quale lamenta la scarsità di risorse per la ricerca rispetto a qualsiasi altro paese europeo. Scegliere le proprie migliori pubblicazioni da destinare a valutazione non è affatto banale, perché i criteri dell’Anvur, (Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca) sono tutt’altro che chiari. Ci sono università come quella di Pavia che hanno demandato a consulenti esterni (al costo di decine di migliaia di euro) la scelta dei “prodotti della ricerca” da destinare alla VQR, senza la garanzia che questi siano effettivamente quelli migliori.
È da sottolineare che le università stanno utilizzando delle risorse reali (economiche o sottraendo il personale interno ad altri compiti) semplicemente per prendersi una fetta più o meno grande del finanziamento statale a discapito degli altri atenei. Con i tagli strutturali che continua a subire ogni anno il sistema universitario, il risultato reale per il vincitore potrebbe essere semplicemente una decurtazione minore della disponibilità finanziaria, piuttosto che veri finanziamenti “per il merito” che nessun ateneo vedrà.
Come terminerà la vicenda? Saranno capaci i docenti universitari di far sentire finalmente la propria voce di fronte a una valutazione che presenta errori vistosi, oppure accetteranno per l’ennesima volta il delirio burocratico, la contrazione delle risorse per la ricerca regalando generosamente soldi agli altri paesi europei e addirittura un danno economico diretto ai propri stipendi senza protestare?