Tre conduzioni una dietro l'altra, roba riuscita in passato solo ai monumenti Nunzio Filogamo, Mike Bongiorno e Pippo Baudo. Conti come Filogamo, Bongiorno e Baudo. Un caso? Nossignore, perché il conduttore toscano si inserisce alla perfezione nel filone rassicurante e confidenziale proprio di cotanti predecessori
È un Giancarlo Leone trionfante, che snocciola dati su dati, record su record, quello che ha il compito di aprire la conferenza stampa di fine Festival. Nelle prossime settimane si giocherà la riconferma a direttore di RaiUno, anche se i giochi sembrano fatti e pare debba “accontentarsi” di una ricollocazione di lusso: davvero la Rai di Maggioni e Campo Dall’Orto possono silurare un direttore di rete che porta a casa un risultato così? Sì, a quanto pare.
L’equidistanza politica del direttorissimo è un’incognita enorme, visto che la Rai renziana non vuole fare prigionieri. Sarà anche alla fine del suo impero, ma Leone piazza comunque la zampata: in conferenza stampa, di fronte alla stampa tutta, chiede ufficialmente a Conti di condurre anche la prossima edizione. Organizzato o no, il siparietto finisce con il lieto fine, con Carlo Conti che accetta il tris.
“Mi auguro che voglia sciogliere la riserva già adesso e confermare la sua presenza al Festival di Sanremo 2017”. E Carlo Conti risponde subito positivamente. Tre conduzioni una dietro l’altra, roba riuscita in passato solo ai monumenti Nunzio Filogamo, Mike Bongiorno e Pippo Baudo. Conti come Filogamo, Bongiorno e Baudo. Un caso? Nossignore, perché il conduttore toscano si inserisce alla perfezione nel filone rassicurante e confidenziale proprio di cotanti predecessori.
Un Sanremo di rottura, che ogni tanto fa capolino tra la sorpresa generale, per definizione non è replicabile l’anno dopo. Sarebbe troppo, per il pubblico italiano. Sarebbe troppo anche per i dirigenti Rai. In conferenza stampa, poi, è tutto uno snocciolare dati di televoto, spese, ascolti, ricavi, costi. Roba da onanisti della Sala Stampa, che al paese reale interessa zero.
E allora isoliamoci dal rumore di sottofondo che ci accompagna mentre stiliamo il bilancio del secondo Festival dell’era Conti. Un Sanremo positivo, pieno di ritmo, con la musica di sempre (perché è inutile stare qui a pretendere Woodstock sulla riviera ligure, santo cielo!). La solita festa nazionalpopolare, il carrozzone così brutto da fare il giro completo e diventare sublime. Lo specchio dell’Italia? Forse non proprio, ma comunque la rappresentazione plastica di una parte di Paese che troppo spesso pretendiamo di ignorare.
Conti è il loro Gran Sacerdote, l’uomo normale che diventa protagonista assoluto, il Medioman che salva milioni di famigliole dalla routine ammorbante. È un’Italia semplice e a sprazzi sempliciotta, ma che forse dovremmo cominciare a rispettare un po’ di più. Restiamo con i nostri gusti, ovviamente, ma proviamo a non denigrare con fare sfottente e strafottente quelli degli altri (lo scorso anno con la vittoria del Volo non ci eravamo riusciti nemmeno noi, confessiamo).
Uno dei meriti di Carlo Conti (fermo restando che il suo stile di conduzione non ci fa certo impazzire) è proprio quello di riuscire a mettere in comunicazione le centinaia di persone che per una settimana l’anno sono recluse 14 ore al giorno in Sala Stampa con milioni e milioni di persone che per cinquantuno settimane l’anno sono reclusi in vite un po’ annoiate. Ecco perché questo Festival ha colto nel segno: perché ha raccontato l’Italia di oggi così com’è, mettendo un po’ tutto: diritti gay, renzismo di forma e sostanza, derive populiste con venature destrorse. Possiamo continuare a dire di non sentirci sanremesi, ma per fortuna o purtroppo lo siamo. Tutti.