La precisazione via social da parte della ricercatrice Roberta D’Alessandro scuote l’albero dell’università italiana, ma non farà cadere nessun frutto. La fresca vincitrice di un finanziamento europeo di prestigio (Erc Consolidator) fa presente che la propria sede scientifica di riferimento è olandese. E che buona parte dei vincitori italiani di questo bando studiano e lavorano all’estero.
In effetti, il Ministro competente avrebbe potuto controllare la targa di costoro prima di manifestare il proprio ottimismo sull’esito del bando, evitando di scatenare ancora una volta l’inutile polemica sull’esodo dei giovani studiosi italiani, espulsi dall’Italia con vigore proporzionale alla loro passione per lo studio e la ricerca. Inutile perché la polemica non avrà alcun esito concreto se non qualche pennellata di rimmel, come accaduto finora. Per questo, sempre più fastidiosa e indecente.
Ciò che ferisce, però, non è soltanto l’esodo dei nostri giovani che ha fatto sprecare inutilmente fiumi d’inchiostro e pagine web, ma anche la perdita di richiamo della nostra università, in primis nei confronti degli stessi studiosi. Negli anni ’80 e ‘90, decine di colleghi stranieri frequentavano con interesse le sedi italiane. Parlo delle mia disciplina per esperienza, ma lo stesso accadeva per molte altre materie. Ora l’Italia è un non-luogo, una plaga del tutto marginale per la scienza e, più in generale, per il progresso della conoscenza. Un paese dalle abitudini accademiche sui generis, come l’assenza di mobilità interna, che altrove è regola. Una periferia mal collegata, in tutti i sensi, con il resto del mondo, degna al massimo di un’affascinante ma scomoda vacanza.
La realtà è ancora più amara per i potenziali allievi. Oggi sono una rarità le ragazze e i ragazzi americani o tedeschi che calano in Italia per studiare. Se lo fanno, molti tendono a frequentare una delle 50 succursali universitarie straniere di Firenze, solo per citare un esempio ben noto. E gli stranieri che frequentano le università italiane puntano alle scuole umanistiche dure o, al più, all’architettura e al design; mentre scartano proprio le aree che il nostro Ministero supporta con più generosità, come l’economia o il management, stelle polari dell’internazionalizzazione.
L’Italia non muove più la curiosità di giovani come Lord Byron e Stendhal o di studiosi meno giovani come Goethe o Edith Wharton. E neppure attrae giovani di belle speranze come il polacco Niccolò Copernico, che si laureò a Ferrara, o l’inglese Nathaniel Eaton che diventò il primo docente di Harvard ma prese il dottorato a Padova; mentre Erasmo da Rotterdam si laureò in teologia a Torino in età matura. Parlare di Copernico o di Stendhal farà sorridere i più, ma l’università è un’istituzione antica, sopravvissuta a tempi anche peggiori del nostro; e dimenticare la storia non aiuta a capire il presente.