Il tipografo della Corte Costituzionale morto di cancro a 61 anni tra i fumi di un locale non a norma. La famiglia che chiede da 26 il riconoscimento della “causa di morte in servizio”, ingaggiando una lotta impari con la Consulta protetta dall’autodichia, la prerogativa giurisdizionale posta a garanzia dell’indipendenza degli organi costituzionali. La verità processuale(archiviazioni-assoluzioni) e quella storica che affogano e riaffiorano in una bottiglia di latte. Infine, una nuova istanza del 18 dicembre 2015 con cui i figli chiedo alla Corte di riaprire il caso, spinti anche dalla circostanza della morte da tumore di due ex colleghi del padre, testimoni al processo. “Lassù – ripete la famiglia Morrone – sapevano che quel locale era malsano”.
Antonio Morrone, ex carabiniere, ha lavorato nel “Centro di fotoriproduzione” dal 1976 al 1989 come operatore di stamperia. Per 13 anni ha respirato i fumi dei solventi impiegati per la pulizia delle macchine che stampavano le leggi destinate ai giudici di Palazzo della Consulta. L’unico modo per areare i locali era l’apertura delle piccole finestre su Piazza del Quirinale. L’impianto di aspirazione arriverà solo nel 1995, quando il centro verrà spostato. Il tipografo era in servizio quando, nel giugno del 1989, accusò il malore che lo poterà a morire per una neoplasia del colon. Ha lasciato la moglie casalinga e quattro figli.
Solventi tipografici: benzolo, metil cloroformio, ciclopropano e fenolo
Nel febbraio 1990 i Morrone depositano presso il Consiglio direttivo della Corte un’istanza per il riconoscimento della causa di servizio da trasmettere al “Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie”. Il parere del Comitato fu negativo, nonostante la commissione medico-legale dell’ospedale militare Roma- Cecchignola avesse invece riconosciuto il “nesso causale” tra decesso e condizioni di lavoro. Il 13 aprile del 1999 la famiglia sporge denuncia alla Procura di Roma per “omissione dolosa di misure di sicurezza sul lavoro”. Il perito di parte, Caterina Offidani, fu netta: la patologia, scriverà, è insorta “dopo una prolungata esposizione a sostanze chimiche nocive per l’organismo”. Benzolo, metil cloroformio, ciclopropano e fenolo.
Si moriva lavorando nei locali della Corte Costituzionale, dove venivano stampate le leggi del Parlamento
Il pm incaricato per due volte chiede però l’archiviazione, sostenendo che non era possibile dimostrare che “i responsabili dell’epoca omettessero volutamente di installare apparecchi idonei a rendere più sano l’ambiente di lavoro” e considerando che “tale ambiente è stato adeguato nel tempo a seconda delle modifiche legislative e delle decisioni adottate dai vertici della Corte in aderenza ai limiti di spesa imposti”. Il prospetto contabile dell’epoca, prodotto in dibattimento, attestava però una riserva sul “Fondo globale per attrezzature e infrastrutture” pari a un miliardo. E anche per questo il gip Otello Lupacchini respinge l’archiviazione, per due volte, e indaga l’ex segretario generale della Corte, passato poi alla Corte dei Conti, Bronzini e l’ex direttore pro tempore del provveditorato interno, Alberto Giraldi con l’ipotesi di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e omicidio colposo. Il 12 febbraio 2002 è il Gup Roberto Mancinetti a mettere la parola fine con una sentenza di proscioglimento, rilevando che “nelle organizzazioni complesse non è sempre agevole individuare i destinatari degli obblighi antinfortunistici, laddove il reato addebitato avrebbe natura di ‘reato proprio”. Ad avviso del giudice gli imputati “non ebbero la percezione del rischio cui erano esposti gli operatori del Centro stampa”. Proscioglimento confermato anche dalla procura generale a cui si era rivolta la famiglia. Un dettaglio sembra, però, contraddire quelle conclusioni: la bottiglia di latte che la Corte si premurava di acquistare, ogni giorno, come “disintossicante” artigianale delle via aeree. La circostanza è confermata da verbali di indagini. E nell’imputazione coatta, il gip Lupacchini ricorda che all’epoca il latte veniva “notoriamente utilizzato per lenire gli effetti di tossicità di talune sostanze” in molti ambienti di lavoro a rischio.
La famiglia Morrone decide allora di intentare una causa civile ma, dicono i figli Antonio, Lorenzo, Ivano, Walter e Antonella, dopo contatti verbali con la Corte si convincono a ritirarla perché sarebbe stato loro rappresentata la possibilità di un risarcimento a fronte della rinuncia ad ogni azione giudiziale. Di questa presunta “promessa” esiste giusto una lettera dell’avvocato della Consulta del 30 luglio 2002 che fa riferimento a colloqui verbali e risponde: “Come già rappresentato per le vie informali, qualora la Corte si determinasse nel senso di tener conto in qualche modo della situazione e delle esigenze degli astanti, pur tuttavia qualsiasi elargizione non potrebbe che assumere la forma e la consistenza del rimborso spesa per le cure ospedaliere e per il funerale”. La famiglia non ci sta e oggi, come allora, torna a chiedere di riconoscere quella morte sul lavoro rimasta per un quarto di secolo sul fondo di una bottiglia di latte.
* Pietro Angotti, collega di Antonio Morrone e testimone al dibattimento, è deceduto per un carcinoma allo stomaco.
Salvatore Giardina, altro collega e testimone che ha prestato servizio al Centro stampa è deceduto per leucemia.