Da un lato, l'utilizzo di materiale odontoiatrico "scadente" per aumentare i profitti. Dall'altro, pazienti indotti con modi "truffaldini" a utilizzare le strutture private al posto di quelle pubbliche. Così, secondo il gip di Monza, il sistema che ha portato all'arresto del consigliere leghista Rizzi e della dentista-imprenditrice Canegrati metteva a rischio "la salute pubblica"
“Quelle corone sono fatte con il culo”. Parola di Stefano Garatti, dirigente e supervisore dell’azienda ospedaliera di Desio e Vimercate arrestato oggi nell’ambito dell’inchiesta che ha portato in carcere il consigliere regionale leghista Fabio Rizzi e all’emissione di altre 20 misure cautelari. Insieme alle tangenti e alle manette nella sanità lombarda, l’inchiesta mette in luce le vere vittime del “sistema” di corruzione intorno alle cliniche dentali convenzionate con gli ospedali lombardi. Sono proprio i cittadini, insieme alle aziende ospedaliere pubbliche, a subire quella che i magistrati definiscono una “mortificazione della tutela della salute”.
Stefano Garatti, secondo i magistrati, fa parte della “schiera di pubblici funzionari al soldo della Canegrati Maria Paola”, l’imprenditrice al centro del sistema di bandi e forniture pilotate al centro delle indagini. Secondo l’accusa, la signora delle cliniche ricompensava la sua fedeltà con ricchi contratti di consulenza e lui ricambiava attivandosi, tra l’altro, per “aggiustare le cartelle mediche” irregolari perché passassero indenni al controllo del nucleo operativo dell’Asl di Monza e Brianza. E’ in vista di uno di questi controlli, puntualmente oggetto di “soffiata” da dentro gli uffici, che il dirigente si impegnava a individuare le cartelle anomale per porvi rimedio e fronteggiare i possibili rilievi. E al telefono, senza difficoltà, ammette: “Quelle corone sono fatte con il culo”.
Il perché si legge nelle carte: i materiali di laboratorio utilizzati dalle cliniche dell’imprenditrice erano di qualità inferiore e “più scadente” di quelli previsti dai contratti, così da consentire a chi li fatturava alti margini sulla differenza dei costi e dei ricavi. “Con buona pace del doveroso controllo della qualità dei prodotti per l’utente e delle convenienza della struttura pubblica”, si legge a pagina 140 dell’ordinanza emessa dal giudice di Monza.
Comportamenti connotati per ciò da “elevata pericolosità sociale di tutti i soggetti coinvolti, ciascuno nella propria funzione incuranti degli interessi pubblici sacrificabili in ragione del proprio interesse personale anche a discapito, in concreto, della salute pubblica attraverso la fornitura di servizi e materiali scadenti o con costi superflui per la collettività”.
Un altro espediente per arricchirsi a danno dei cittadini era quello di gonfiare artificialmente le liste d’attesa del pubblico, così da favorire le prestazioni a pagamento rispetto a quelle a carico del Setvizio sanitario, determinando così “un concreto vantaggio patrimoniale anche all’azienda ospedaliera (che percepisce una percentuale sui proventi di quelle attività)”. C’erano “precise istruzioni di carattere generale per tutti i centri odontoiatrici dell’indagata”, si legge nelle carte, per indurre i pazienti che avrebbero ben potutto usufruire di prestazioni a ticket a ricorrere invece a quelle in regime di solvenza, a costi molto maggiori. Si fa l’esempio del Niguarda. Più intercettazioni svelano il meccanismo. “Noi facciamo delle liste di attesa tra virgolette” che vadano “alle calende greche”, dice la Canegrati al dirigente Massimiliano Sabatino, dirigente degli Icp di Milano.
“E così sposteremo la maggior parte dell’attività sulla solvenza”. Liste, scrivono i magistrati, in realtà “inesistenti”. Altro espediente “truffaldino” era quello di far figurare come analoghi i costi della prestazione privata e pubblica, aumentando artificialmente il costo di quest’ultima con un espediente semplice quanto smaccato: predisporre una ricetta per ogni prestazione anziché arrivare fino a otto per ogni ricetta con un ticket massimo di 66 euro. Lo dicono gli intercettati: “La quota del ticket arriverebbe a costare verosimilmente quanto ci costa in solvenza, e quindi gli possiamo dire …allora col ticket costa per dire quaranta euro, senza ticket costa quarantacinque però ce l’ha subito… capito?”. In questo modo, scrivono gli inquirenti, si “cagiona permanentemente un danno all’utenza di rilevante entità ogni qualvolta un paziente necessiti di più prestazioni”. Non mancaso casi, citati nelle carte, di pazienti portatori di patologie che li avrebbero mandati esenti da ticket e dal pagamento della prestazione (a carico del Ssn) ma che venivano sospinti per anni (dal 2008 al 2013) in regime di solvenza.