“Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi, osservò con tono di rimprovero, che zoppicavo”. Quell’impercettibile segno era spia di qualcosa di serio.

51GKKKxAcUL._SX329_BO1,204,203,200_“Vangare, zappare, tagliare l’erba proprio non se ne parlava più. Anche raccogliere era diventato complicato: mi mancava l’equilibrio, prima di staccare frutti e ortaggi dovevo poggiare il mio instabile corpo a un qualche sostegno”. Cosa accade quando a una grande scrittrice, che cura e ama un giardino, un frutteto, un oliveto e un orto e con altrettanta passione un cane, arriva la diagnosi di Sla? Nasce un libro bellissimo. Un diario semplice, che cresce e fiorisce come una pianta, che ramifica e stupisce. Un diario la cui scrittura sembra seguire le stagioni. L’autunno, i giorni in cui ancora il sole illumina la pergola, ma l’ombra dei Monti Pisani arriva presto, si stende nel frutteto e tutto diventa incerto, il confine si fa sfumato. C’è una minaccia, è la stagione delle domande. La scrittrice prende coscienza della malattia, si interroga sul da farsi, decide di sperimentare improbabili terapie, si affida a ciarlatani per poi liberarsene con un gesto ribelle, cavalcando di nuovo l’onda della libertà che la riporta a se stessa. Al suo giardino. Poi man mano le parole affondano nella terra, bruna e misteriosa, la meditazione sulla morte si fa lucida, spietata. Quindi arrivano giorni in cui sboccia lo stupore per una macchia rosa tra i cespugli e fiorisce la consapevolezza che la vita è molto più ampia della malattia. La metamorfosi della pianta è affidata a ciò che la circonda, vento, acqua, senza chiedere, senza pretendere. La libertà dall’accanimento per la guarigione permette ora lo stupore verso il mondo. Infine l’estate, accecante, quel calore potente che è forza. La consapevolezza della morte si fa luce, empatia piena con la natura, lo sguardo si fa immenso anche se siamo costretti a guardare la vita da un pertugio.

E come un giardino, questo libro regala sorprese. Commuove. E lo fa proprio perché non vorrebbe. Ci porta nelle profondità buie per poi risollevarci davanti a una corolla, ci porta tra poeti e filosofi amati e ci porta le note degli Abba (una dottoressa cinese ha consigliato Pia Pera di ascoltarli perché li ritiene terapeutici). “Cos’è cambiato nel mio rapporto col giardino? E’ cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire…”.

Mi vengo in mente i versi di René Char:

Spoglia i boschi l’uragano.
Io sopisco la folgore dagli occhi teneri.
Lasciate il gran vento in cui tremo
Unirsi alla terra in cui cresco.
(Annullarsi del pioppo in Ritorno Sopramonte)

Questo libro riesce a toccare il mistero intorno al quale lavorano i poeti. E non è un caso che porti il titolo di un verso di Emily Dickinson, Al giardino ancora non l’ho detto. E se solo la poesia e la fede hanno l’ardire di dare risposte ai grandi temi della vita, nascita, malattia, vecchiaia, morte, Pia Pera riesce, intorno a essi, a formulare le domande giuste.

E se il giardino ancora non sa quello che aspetta la giardiniera, io sento che invece il giardino sa, avverte qualcosa di immenso che lo attraversa. Così come lo sente il cagnolino Macchia, che non corre più abbaiando sospettoso incontro agli ospiti, ma resta ranicchiato, al caldo, nella sua poltrona, come se sapesse quanto inutile sia lo sbattersi in nome di una vuota vita efficiente e quanto invece sia essenziale restare in ascolto, raccolti, vicini alla nostra più intima e indistruttibile essenza, respirando e restando in comunione con ciò che amiamo. Perché, come scrive sempre René Char, “La luce vera la si scopre al fondo delle scale, allo spiraglio della porta”.

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