Calogero Giambalvo è finito in manette nel novembre 2014 insieme ad alcuni fiancheggiatori del boss. Assolto in primo grado, compare nelle intercettazioni degli inquirenti mentre si vanta dei suoi rapporti con la famiglia del latitante. Il vicepresidente della commissione Antimafia: "Valuteremo ipotesi della commissione d'accesso"
Arrestato in un blitz antimafia, assolto in primo grado dall’accusa di aver favorito Cosa nostra e quindi tornato ad occupare il suo scranno al consiglio comunale di Castelvetrano. È diventato un caso nazionale quello di Calogero Giambalvo, il consigliere comunale finito in manette nel novembre 2014 insieme ad alcuni fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro. “Nella prossima riunione prevista per questa settimana in commissione parlamentare Antimafia chiederò di ascoltare il sindaco di Castelvetrano, Felice Errante, mentre al prefetto di Trapani domanderò di valutare l’opportunità di inviare una commissione di accesso al comune per comprendere se ci sia stato o meno un condizionamento nell’attività dell’amministrazione dal momento che il consigliere Giambalvo faceva parte della maggioranza”, ha annunciato nelle scorse ore Claudio Fava, vice presidente di palazzo San Macuto, che con una conferenza stampa nel comune siciliano ha rilanciato il caso del politico trapanese coinvolto nel blitz contro Cosa nostra. Giambalvo, primo dei non eletti alle amministrative del 2012, era entrato in consiglio comunale nel luglio del 2014: candidato da indipendente nella lista di Futuro e Libertà, durante il suo insediamento, aveva annunciato di aderire al gruppo di Articolo 4, la lista creata dall’ex vice presidente della Regione Siciliana Lino Leanza (poi deceduto), che alcuni mesi dopo confluirà interamente nel Pd (a Castelvetrano continua ad essere un gruppo autonomo). I Nel novembre dello stesso anno, però, il consigliere era finito in manette durante l’operazione Eden 2, uno dei tanti blitz che puntano a decimare la guardia d’onore di Messina Denaro. Il sindaco Errante è esponente Ncd e la sua candidatura è stata sostenuta da varie liste tra cui quella del Pd.
Le intercettazioni degli inquirenti avevano registrato più volte Giambalvo che si vantava dei suoi rapporti con la famiglia dell’inafferrabile latitante di Cosa nostra. Come quando raccontava di aver conosciuto persino don Francesco Messina Denaro, padre di Matteo e patriarca di Cosa nostra in provincia di Trapani. “Minchia c’era un profumo di caffè: entra, Lillo prenditi il caffè. Zu Cicciu ‘assa benerica (mi benedica ndr), minchia ci siamo abbracciati e baciati, io ogni volta che lo vedevo mi mettevo a piangere”, è uno dei tanti passaggi delle intercettazioni finito agli atti dell’inchiesta. In un’altra occasione, invece, Giambalvo spiegava di essere pronto a finire in carcere pur di aiutare lo stesso Messina Denaro. “Se io dovessi rischiare trent’anni di galera per nasconderlo, rischierei: la verità ti dico – diceva il consigliere intercettato – Ci fossero gli sbirri qua, e dovessi rischiare a mettermelo in macchina e farlo scappare io rischierei. Perché io ci tengo a queste cose”. Controverse anche le parole utilizzate per commentare la collaborazione di Lorenzo Cimarosa, cugino di Messina Denaro, che aveva deciso di saltare il fosso e farsi pentito. “Minchia se ti racconto l’ultima: Cimarosa collaboratore di giustizia! Ccose tinti (cose brutte ndr) picciotti miei. Tu te lo immagini? La prima volta se l’è fatta bello sereno la galera e ora si scanta (ha paura ndr)”. Secondo Giambalvo, Messina Denaro avrebbe dovuto intimorire Cimarosa, per bloccarne la collaborazione con i magistrati. “Se fussi io Matteo, ci ammazzassi un figghiu (gli ucciderei un figlio ndr), e vediamo se continua a parlare”. In quelle stesse settimane, tra l’altro, uno dei figli di Lorenzo Cimarosa, Giuseppe, aveva conquistato notorietà nazionale dopo aver pubblicamente ripudiato la propria parentela con Messina Denaro.
“L’accusa nei miei confronti era fondata su intercettazioni e chiacchiere equivocate in sede di trascrizione: prendo le distanze da quanto detto contro di me dai media, perché sono sempre stato accanto a progetti di legalità.”, aveva detto il politico dopo l’assoluzione, quando il prefetto di Trapani, Leopoldo Franco, ne aveva dovuto decretare il reintegro in consiglio comunale. “Il prefetto – dice adesso Fava – ne ha disposto il reintegro in base alla legge. L’applicazione della legge è prerogativa del prefetto, ma la cittadinanza e gli altri consiglieri hanno un dovere morale al quale rispondere. Per questa ragione invito i restanti consiglieri comunali a dimettersi come atto di responsabilità: mi chiedo come facciano a sedere sugli stessi scranni di una persona che è stata intercettata mentre esprimeva ammirazione nei confronti del boss Messina Denaro”. Per la verità la maggioranza del consiglio comunale di Castelvetrano aveva sottoscritto un documento (con 16 firme) per prendere le distanze dal consigliere reintegrato. “Le affermazioni del consigliere Giambalvo – si legge nel documento – se fatte per come riportate alla stampa sono sicuramente da deplorare e condannare. Le stesse risulterebbero inaccettabili per chiunque, e a maggior ragione, per chi riveste un ruolo istituzionale”. Parole che però sono rimaste lettera morta, mentre l’associazione antiracket Libero Futuro chiede al ministro Angelino Alfano di decretare “la rimozione del consigliere dalla sua carica per ragioni di pubblica sicurezza”.