Nascosto ai margini della piantagione di cacao, Agus Sofyan aveva iniziato a vendere birra e arrak. A volte, più discretamente, vendeva anche marijuana e pillole bianche per dormire: il suo era diventato un luogo in cui drogarsi e pomiciare (…) Proprio in quel chiosco, mentre Laila stava ancora guardando la gara dei piccioni, Margio aveva chiesto una bottiglia di birra (…) si era seduto su una panchina dietro al chiosco e, mentre la birra stava ancora spumeggiando, aveva parlato di nuovo: “In questo preciso istante, penso che potrei ammazzare qualcuno”.

Strutturato come un giallo psicologico capace di sezionare le violenze, gli abusi e le incomprensioni che stanno dietro due famiglie di una cittadina indonesiana, L’uomo tigre, di Eka Kurniawan (traduzione di Monica Martignoni, pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia), è un libro graffiante e dalla forte carica immaginifica.

Flowers are seen on the beach in Seenigama

Utilizzando uno stile dai tratti esotici che ricorda García Márquez e V.S. Naipaul, e che deve molto alla tradizione della narrazione orale, Eka Kurniawan tratteggia una storia dai risvolti soprannaturali: l’omicidio di un incallito donnaiolo, Anwar Sadat, perpetrato da Margio, un ventenne in preda a traumi esistenziali dovuti alla violenta e non rieducabile condotta del padre. La cosa inspiegabile è che Margio ha ucciso la sua vittima mordendole il collo fino a spezzarne l’osso, lasciando una ferita uguale a quella lasciata dalla tigre quando uccide le sue prede.

In parte saga familiare, in parte visione critica della storia nazionale indonesiana, in parte letteratura dal sapore fantastico che richiama i classici poemi epici indiani come il Rāmāyana, L’uomo tigre è un giallo atipico, dove il lettore conosce il colpevole già dalle prime pagine, che si immerge in un concatenarsi di fatti tragici e altamente simbolici. Una sorta di denuncia al mondo chiuso e desueto della famiglia tradizionale ma al contempo alla schizofrenia della società indonesiana contemporanea, colpevole di distruggere quotidianità e rituali delle comunità rurali, lasciandosi alle spalle imbruttimento, abbandono e perdita di una propria appartenenza.

Poi un giorno il treno smise di arrivare, senza preavviso né spiegazioni, come una ragazza che non vuole più vedere il suo fidanzato (…) L’edificio era abbandonato. Aveva perso tutti i suoi arredi, un pezzo dopo l’altro, tranne la campana senza tempo e il cartello con il nome della stazione. La biglietteria veniva usata da alcune prostitute per vendere il loro corpo su una stuoia di vimini, e il marciapiede era pieno di stie; quella infatti era la sede del combattimento dei galli.

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