Teheran fa il gioco delle tre carte e complica la partita di Arabia, Russia, Qatar e Venezuela, i grandi produttori che martedì hanno annunciato di essere pronti a congelare la produzione di petrolio ai livelli di gennaio. Il giorno in cui nella capitale della Repubblica islamica si è svolto il vertice tra i ministri competenti di Iran, Iraq, Qatar e Venezuela si è infatti aperto con un no secco di Mehdi Asali, direttore generale del ministero del Petrolio per i rapporti con l’Opec, che ha definito “illogica” la richiesta di congelare la produzione visto che, ha detto, gli altri esportatori hanno approfittato degli anni di embargo nei confronti della Repubblica islamica per aumentare il loro output fino a 4 milioni di barili al giorno. “Ora si aspettano che l’Iran paghi il costo di un riequilibrio. Se ci chiedono di diminuire la nostra produzione, la risposta è no”, ha chiuso.
Nel pomeriggio la versione è cambiata: il ministro Bijan Zanganeh, al termine dell’incontro con i suoi omologhi, ha detto che Teheran “appoggia la decisione che è stata presa da membri Opec e paesi non-Opec per mantenere un tetto alla produzione per stabilizzare il mercato e i prezzi a beneficio dei produttori e dei consumatori”. Ma non ha precisato se Teheran intende congelare la produzione ai livelli di gennaio, come previsto dall’intesa raggiunta a Doha. Dunque non è affatto chiaro se si tratti di un’adesione convinta o di un “armatevi e partite”. Il barile per ora non risente della fragilità dell’intesa, anzi: le quotazioni sono in forte rialzo, con il Brent oltre i 34 dollari al barile contro i 32 della precedente chiusura e il Wti sopra i 30, in aumento del 5%.
“Manteniamo forti dubbi sulle reali possibilità di un accordo nel breve periodo, con l’Iran principale ostacolo”, commenta Filippo Diodovich, market strategist di IG. “Il governo di Teheran vuole riguadagnare le quote di mercato perse dopo anni e anni di limiti alle esportazioni di greggio a causa delle sanzioni economiche. Non è quindi interessato a vendere a prezzi bassissimi ma a riconquistare i clienti. Per tale ragione Teheran sta intensificando le trattative con l’India per esportare più greggio possibile, in una guerra dei prezzi con gli altri paesi arabi”.
“L’Iran e l’Iraq sono fondamentali per qualsiasi accordo – sottolineano gli esperti di Barclays – perché sono i paesi intenzionati a incrementare la produzione”. Ma l’Iran, che prima del 2012 esportava circa 2,5 milioni di barili al giorno, ha tagliato il livello di circa 1,1 milioni a causa delle sanzioni e ora punta a recuperare terreno aumentando le forniture di circa 1 milione di barili al giorno nel corso dei prossimi 12 mesi: il primo carico è arrivato in Europa domenica scorsa. Mentre Baghdad, la cui produzione a gennaio ha raggiunto il livello record di 4,35 milioni di barili al giorno, punta però ad arrivare a 6 milioni di barili al giorno entro la fine del decennio.
Julian Jessop, esperto energetico dell’osservatorio Capital Economics, spiega invece che “ci sono almeno tre buone ragioni per essere cauti sui risultati dell’accordo tra l’Arabia Saudita e la Russia”: “In primo luogo, l’accordo dipende da altri membri dell’Opec (non solo Venezuela e Qatar). Ma l’Iran ha già detto che di volersi fermare solo quando avrà raggiunto il livello pre-sanzioni, il che implica un aumento futuro di almeno un milione di barili al giorno”. “In secondo luogo – osserva l’analista – il successo della trattativa dipenderà dalla capacità della Russia di giocare pienamente il proprio ruolo. E qui l’esperienza non è incoraggiante, visto che Mosca già nel 2001 aveva fatto marcia indietro su un accordo simile. Né vi è alcuna indicazione che altri grandi produttori non Opec siano disposti a partecipare” a questa auto-limitazione. Per Jessop, infine, “anche mantenendo il livello di produzione Opec e russa ai livelli di gennaio l’offerta sarebbe ancora eccezionalmente elevata. In altre parole, in questo modo si manterrebbe semplicemente l’eccesso di offerta che ora si registra. Certo, sarebbe meglio di un ulteriore aumento, ma non sono i tagli alla produzione attesi dai mercati”. In ogni caso, “la nostra stima resta di un recupero dei prezzi del petrolio nel 2016 con livelli a fine anno per Brent e Wti di 45 dollari al barile”, previsione che “si basa soprattutto su un aumento della domanda globale e sulla riduzione dell’offerta non-Opec alla luce dei precedenti forti cali dei prezzi, piuttosto che dalle prospettive di un coordinamento tra l’Opec e la Russia”.
Quale sarà la reazione degli altri paesi produttori non-Opec è tutto da vedere. “Norvegia, Stati Uniti, Canada e Messico potrebbero decidere di non accettare le condizioni – aggiunge Longo di IG – e il Brasile si trova in forte recessione economica e difficilmente potrà scegliere di aderire a un piano che possa portare una riduzione dei ricavi”.