Il presidente della commissione del Senato che ha respinto la richiesta di domiciliari per il berlusconiano da una parte ricorda che l'organismo può valutare solo il sospetto di persecuzione nei confronti del parlamentare, ma dall'altra elenca una serie di rilievi nel merito: "E' decaduta l'accusa di associazione a delinquere". Ma è rimasta la corruzione (oltre che la richiesta di arresto)
Conta il fumus persecutionis, ma non troppo. Nessun giudizio nel merito, ma anche sì. Non è una valutazione dei senatori sulla solidità di una richiesta d’arresto chiesta da tre pm, vagliata da un primo giudice e confermata da altri tre giudici. Eppure a essere “determinante” per il no della giunta per le immunità del Senato alla richiesta di arresto del parlamentare di Forza Italia Domenico De Siano non è stato il sospetto di una persecuzione, unico elemento che i suoi colleghi avrebbero dovuto valutare. Ma il fatto che il tribunale del Riesame (i tre giudici che hanno confermato la richiesta d’arresto) che, sì, avrà pure confermato il mandato per i domiciliari, avrà anche confermato l’accusa di corruzione, però ha fatto cadere uno dei reati contestati, l’associazione per delinquere. Su questo ha deciso la giunta, senza dire però dov’è la presunta persecuzione dei giudici, dove i 7 giudici che hanno valutato le carte dell’inchiesta abbiano abusato delle proprie prerogative.
A ricostruire così la votazione della giunta non è un retroscena dei giornalisti parlamentari o qualche congettura dei partiti che hanno votato a favore dell’arresto (M5s e Lega Nord). Ma a dirlo, in modo esplicito, è il presidente dell’organismo, Dario Stefàno, Sel: è stata sua la proposta di respingere la richiesta di arresto della Procura ed è stata votata da Fi, Ncd e Pd. In un’intervista all’Ansa Stefàno da una parte ricorda che alla giunta per le immunità “compete solo la valutazione del cosiddetto fumus persecutionis”. Ma definisce “determinante” per il voto finale l’annullamento di uno dei capi d’imputazione contestati a De Siano.
Il mandato di arresto della Procura di Napoli è in attesa di applicazione da un mese: al senatore e coordinatore di Forza Italia in Campania vengono contestati i reati di corruzione e turbativa d’asta e il tribunale del Riesame aveva confermato la richiesta di domiciliari il 3 febbraio. L’inchiesta vede coinvolti altri 13 indagati e riguarda l’affidamento del servizio di raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani nei comuni di Lacco Ameno, Forio d’Ischia e Monte di Procida. Agli atti ci sono intercettazioni telefoniche e ambientali, documenti sequestrati, verbali di appostamento e di pedinamenti.
Ma il compito dei senatori non era quello di leggersi tutto. Era più facile, era quello di sempre: dovevano capire se c’era un eventuale intento persecutorio dei magistrati nei confronti di De Siano. Eppure, spiega Stefàno, “la giunta ha dovuto valutare diversi aspetti tra cui il fatto che gli altri coindagati sono a piede libero e che è stata affermata la legittimità formale delle procedure di gara dal Consiglio di Stato”. “In più – aggiunge – mancava la motivazione, in termini di necessità “assoluta”, della restrizione alla libertà di un parlamentare”. Ma uno dei punti “determinanti” che hanno spinto la maggioranza della Giunta a votare contro l’arresto, sottolinea Stefano, è che “il Tribunale del Riesame ha annullato il capo di imputazione relativo all’associazione a delinquere”. In definitiva la giunta per le immunità è diventato il tribunale del Riesame del tribunale del Riesame. Un Riesame al quadrato. Stefàno conclude sottolineando che la giunta “ha constatato che era venuto meno il reato di associazione e che i concorrenti del senatore De Siano con le stesse imputazioni risultano tutti ‘a piede libero’. Solo nei confronti di De Siano sarebbero rimaste in piedi misure restrittive. E questo per noi è stato un elemento di attenta valutazione”. L’eventuale “stortura” quindi, secondo i senatori, sta nel fatto che De Siano sarebbe stato l’unico a finire agli arresti. Cosa che sarebbe accaduta se non fosse stato un parlamentare e se la richiesta di arresto non avesse avuto un ulteriore grado di giudizio, successivo a quello del Riesame.
Eppure, fanno notare a Stefàno, i magistrati scrivono nella richiesta di arresto che De Siano è un soggetto ad “elevato rischio di recidivanza” e hanno formulato un “giudizio negativo in relazione alla personalità degli indagati (tra i quali viene citato espressamente De Siano) caratterizzata, secondo l’autorità procedente da comportamenti pervicaci e talvolta al limite del cinismo”. Stefàno risponde che “non è di competenza della Giunta formulare giudizi morali nei riguardi dei senatori destinatari di atti giudiziari. Piuttosto, se nell’ordinanza di custodia cautelare il rischio di recidiva era pressoché esclusivamente riferito al reato di associazione a delinquere, una volta annullata quest’ipotesi di reato, ne consegue che la motivazione dell’esigenza cautelare si presenta, per così dire, implausibile per sopravvenuta contraddittorietà“. In più, aggiunge Stefàno, “tecnicamente la nozione di recidiva presuppone non solo la commissione di un reato ma l’esistenza di una pronuncia di condanna sulla quale la Giunta non può formulare alcuna prognosi di plausibilità”.
Provando a sciogliere il linguaggio oscuro sia dei giudici sia di Stefano, dunque, il punto è che da una parte i magistrati chiedono l’arresto sostenendo tra l’altro che il comportamento di De Siano potrebbe continuare a essere quello contestato dalla Procura. Dall’altra, replica il presidente della giunta, questo rischio era riferito all’associazione per delinquere, ora decaduta dopo la pronuncia del Riesame; secondo, è l’interpretazione di Stefàno, di recidiva si può parlare solo in caso di sentenza di condanna che la giunta non può prevedere. Nessuno peraltro lo pretende, tantopiù che le norme chiedono alla giunta, per utilizzare per la terza volta le parole del presidente della giunta Stefàno, “solo la valutazione del cosiddetto fumus persecutionis”.
Comunque, rassicura Stefàno, “il procedimento potrà andare avanti comunque ed eventualmente tutti gli indagati potranno venire condannati”. Il Parlamento, bontà sua, dà dunque il permesso ai magistrati di fare il proprio lavoro, anche celebrare un processo.