Il rapporto pubblicato dall’ong Oxfam alla vigilia del World Economic Forum di Davos, secondo il quale nel 2016 la ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale supererà quella del restante 99%, ha colpito nel segno. Ma, come spesso accade in questi casi, l’ondata di indignazione e riflessione è durata un paio di giorni ed ha lasciato immediatamente spazio a temi più frivoli tipo Festival di Sanremo.
Vale la pena approfondire l’argomento, in quanto ha delle implicazioni sulle politiche da mettere in atto per riequilibrare un mondo rovesciato che trovano riflesso nel dibattito in corso in vari Paesi su come garantire non solo che la popolazione abbia mezzi di sussistenza per sopravvivere, ma anche che possa consolidarsi quella classe media di taxpayers e consumers che è alla base del progresso economico e della governabilità dei paesi.
Quello che è ancora più scioccante del dato sopra riportato è che l’80% della popolazione globale detiene solo il 5,5% della ricchezza, con un reddito pro capite di 300 dollari al mese. Le 80 persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza delle 3,5 miliardi di persone più povere e, dato assolutamente incredibile, dal 2009 al 2014 il loro reddito si è duplicato.
L’economista francese Thomas Piketty sostiene che la disuguaglianza è intrinseca al capitalismo e collega la maggiore eguaglianza verificatasi nei decenni tra il 1920 ed il 1950 ad eventi come guerre e depressione economica, che hanno indotto governi ad adottare politiche di redistribuzione della ricchezza. Come dire che ci focalizziamo sul costruire una società più giusta ed equa solamente quando ci sono emergenze che ci obbligano a fare gruppo.
Nel 1992 gli amministratori delegati delle maggiori 500 società nel mondo guadagnavano 3 milioni di dollari all’anno, nel 2012 il compenso era salito a 12 milioni. Nel 1989 questi super-manager guadagnavano 58 volte il salario di un impiegato medio dell’azienda, in 2012 273 volte tanto. I vantaggi sociali sono cumulativi e si perpetuano, i ricchi ricevono migliori cure sanitarie, nutrizione, educazione e stimoli intellettuali e quindi la disparità tende naturalmmente a replicarsi, perché le condizioni di partenza non sono eque. Ovviamente un sistema equo al 100% dovrebbe far partire tutti alla pari, il che vorrebbe dire “desocializzare” gli individui togliendoli dal loro contesto familiare e sociale. Impossibile da mettere in atto. Ma è un dato di fatto che più di un terzo dei 1.645 miliardari identificati da Forbes abbiano ereditato ricchezze.
La disuguaglianza nel mondo è ancora superiore alle disuguaglianze all’interno di un singolo paese, anche se dal 2000 la disuguaglianza globale è in declino grazie all’emergere di nazioni come India, Cina e Brasile, mentre le disuguaglianze interne ai paesi sono aumentate. Paesi considerati virtuosi, quali Inghilterra, Svezia e Germania, hanno visto la propria disuguglianza interna aumentare enormemente negli ultimi 25 anni: pensate che in Germania la povertà è aumentata di quasi il 50% dal 2000, ovviamente anche a causa del forte flusso migratorio.
Cosa fare? Politiche redistributive del reddito sono di vario tipo: tassazione progressiva, minor tassazione su lavoro e consumi e maggiore su capitale e ricchezza, salario minimo dignitoso parametrato al costo di vita, un welfare State generoso (investimento in educazione e salute pubblica gratis). Ma ce n’è uno che è molto semplice come concetto e nemmeno tanto nuovo: il reddito minimo di cittadinanza. Pensate che già Thomas Paine (filosofo inglese considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti) verso la fine del 700 proponeva un cash grant da concedere ad ogni persona che compiva 21 anni ed una pensione a tutti i 50enni, entrambi finanziati con una tassa sulla casa.
Il reddito minimo costituirebbe una spesa a breve termine ma un investimento a lungo termine, permettendo alle persone di elevare il proprio livello di vita, contribuire a sviluppo economico e consumi e ridurre la spesa sociale, abbassando allo stesso tempo la tensione sociale che sfocia in attività criminali che comportano elevatissimi costi per la società nel suo insieme.
Quando vivevo in Brasile, ho avuto la fortuna di collaborare con il governo Lula su quello che considero il miglior programma mondiale di redistribuzione del reddito: Bolsa Familia. All’epoca il Brasile era il paese più disuguale al mondo, un terzo della popolazione (60 milioni) viveva in povertà (meno di 2 dollari al giorno) ed il 15% in assoluta indigenza (meno di 1.25 dollari). Dal 2000 al 2010 36 mlioni di brasiliani sono usciti dalla povertà grazie al programma Bolsa Familia ed il reddito pro capite è aumentato del 27%. Come funzionava il programma? Chi aveva meno di 42 dollari al mese riceveva un pagamento fino ad un massimo di 200 dollari mensili (con una media di 65 dollari), dovendo garantire in cambio l’85% di presenza a scuola e l’espletamento di tutte le vaccinazioni per i bambini, oltre a regolari controlli medici per madri e figli. Oggi Bolsa Familia beneficia 14 milioni di famiglie e 55 milioni di persone. Sapete quanto costa ai contribuenti brasiliani? Meno dello 0.5% del Pil. Come disse Lula, anche i miserabili diventano consumatori e quindi l’economia in toto ne beneficia: è un approccio pro-market per combattere la povertà e ridurre le disparità, riconoscendo che la disuguaglianza estrema è l’ostacolo principale alla crescita economica, come finalmente ha riconosciuto anche l’ultimo World Economic Forum.