E’ il 2 dicembre dello scorso anno. Alle 11.00 una coppia uccide 14 persone e ne ferisce 22 in una sorta di sacrificio umano epilogo di una autoproclamata azione jihadista. La donna alle 11.14 pubblica sul proprio profilo Facebook la frase “We pledge allegiance to Khalifa bu bkr al bhaghdadi al quraishi” con cui assicura fedeltà al leader dell’Isis.
Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik – questi i loro nomi – alle 15,20 incontrano la morte, dopo averla seminata a piene mani in un centro di disabili della loro città. La polizia di San Bernardino, in California, intercetta il Suv che i due hanno appositamente noleggiato qualche giorno prima e ingaggia un conflitto a fuoco che nemmeno Quentin Tarantino sarebbe stato capace di immaginare.
In quel che avanza della massiccia Lexus nera gli agenti ritrovano un telefonino di marca Apple con una Sim dell’operatore Verizone. Quell’iPhone 5C è il classico “oggetto” …informato sui fatti. Quel cellulare “sa” (o può far capire) cosa è successo nei 18 minuti mancanti nella pur meticolosa ricostruzione della agghiacciante vicenda. L’esame di quel dispositivo può consentire la ricostruzione di contatti e relazioni, squarciare il velo che protegge possibili segreti dell’universo del terrorismo, evitare – magari – il ripetersi del sopravvento dell’odio e del dolore.
Sheri Pym, coraggiosa giudice della Corte distrettuale della California, ordina ad Apple di sbloccare il cellulare, così da impedire che il fallimento di dieci tentativi di inserimento del codice segreto attivi la procedura di eliminazione irreversibile di quanto memorizzato sullo smartphone.
La disposizione del magistrato è suffragata da dettagliate indicazioni tecniche redatte da uno dei migliori cyber detective al mondo, il Supervisor Special Agent di FBI Christopher Pluhar, che spiega in dettaglio l’impossibilità di procedere con i più sofisticati metodi e mezzi a disposizione di chi svolge attività di analisi forense e sottolinea la complessità delle dinamiche di protezione congegnate da Apple per impedire indagini di sorta.
Shery Pym, forte di una pregressa lunga esperienza di giudice federale, basa la propria richiesta di intervento dell’azienda produttrice (che non è certo un organo dello Stato) sul cosiddetto “All Writs Act” del 1789. La norma plurisecolare è una delle pietre d’angolo della legislazione americana e costituisce una sorta di “coltellino svizzero” idoneo a risolvere le questioni più intricate.
Per i più curiosi il “writ”, eredità delle tradizioni legali e processuali britanniche, originariamente era un ordine del sovrano, redatto in latino e sotto forma di lettera, munito persino di sigillo reale. Analogamente a quanto previsto dal nostro ordinamento con le cosiddette “prove atipiche” di cui all’articolo 189 del codice di procedura penale, l’All Writs Act si può utilizzare al verificarsi di quattro simultanee straordinarie condizioni: l’assenza di rimedi alternativi (cioè la mancanza di altri strumenti giudiziari), l’indipendenza giurisdizionale (ossia la non creazione di un “precedente” per futuri processi), l’indispensabilità e la proporzionalità dell’azione richiesta rispetto al caso da risolvere, il rispetto delle altre leggi (ovvero l’esclusione assoluta che le azioni poste in essere possano dar luogo a violazioni o reati).
Gli ingredienti per l’applicabilità dell’ A.W.A. ci sono proprio tutti. Tim Cook ha detto “no”. Il numero uno di Apple improvvisamente si erge a paladino della privacy e dei diritti fondamentali del cittadino e pubblica una filippica sul sito della Apple per giustificare la sua scelta. La comunicazione, titolata “A Message to Our Customers” e divisa in paragrafi, parla della necessità della cifratura dei dati nella nostra vita quotidiana, della minaccia alla riservatezza personale, del caso di San Bernardino e della pericolosità di creare un precedente di questo genere.
Gli strenui difensori della riservatezza individuale danno ragione a Cook e sottolineano la vigenza dell’Electronic Communications Privacy Act, ma dimenticano che tale disciplina non si applica allo sblocco degli apparati, operazione che agisce “localmente” sul dispositivo e non sul flusso di comunicazioni.
Le disquisizioni di ordine giuridico e procedurale potrebbero proseguire all’infinito lasciando spazio alle più suggestive interpretazioni e sfogo a virtuosismi degli equilibristi del diritto e delle scienze forensi. Qui, invece, ci si trova dinanzi ad un evento terroristico di inaudita cruenza e alla necessità che simili mattanze non abbiano a ripetersi.
Il rifiuto dell’azienda a fornire questo genere di supporto non è cosa nuova, perché analoga (anche se molto meno fragorosa) opposizione era già stata manifestata alla fine del 2014.
In quella circostanza – in un incontro al Dipartimento della Giustizia cui presero parte magistrati e manager di Apple e raccontato dai cronisti del Wall Street Journal – il vice procuratore generale James Cole commentò il diniego dell’azienda come “una operazione di marketing a favore dei criminali”.
Sono in tanti ad accodarsi al severo giudizio di Cole e a considerare l’impermeabilità dell’iPhone come elemento base di un “favoreggiamento” nella strage di San Bernardino e velata “istigazione a reato” per chi un domani volesse delinquere assicurandosi l’inviolabilità dei segreti custoditi all’interno di smartphone o tablet di una specifica marca.
Non so se la mossa di Cook susciterà nel pubblico una standing ovation o sveglierà l’indignazione sempre più sopita della gente innescando quei boicottaggi commerciali che sono sempre stati l’arma di legittima difesa del cittadino inerme.
Mi sento solo svuotato. Non vedo un futuro scevro da duelli tra prepotenze istituzionali e laiche sempre davvero fuori luogo.
@Umberto_Rapetto