Ho un’idea fissa, ed è questa: la ricaduta più radicale dell’era digitale in fotografia è la scomparsa del mirino.
Le macchine fotografiche digitali esistono ormai da 35 anni, ma non accennano a diminuire i dibattiti, gli scontri, le scuole di pensiero, le analisi di ogni tipo – tecnologiche, sociologiche, mediologiche – su questa “vecchia novità”. E’ stata una rivoluzione, certo, ma è stata.
Oggi nessuno si pone il problema della supremazia dell’automobile sulla carrozza a cavalli, il che non toglie la possibilità, per gli appassionati e per i nostalgici, di coltivare l’antica pratica con tutti i piaceri connessi. E invece, da quel lontano 1981 in cui Sony presentò la Mavica (la prima digitale che sostituiva la pellicola con un… floppy disk), la classica partitella di calcio scapoli/ammogliati sul campetto di quartiere è diventata quella tra analogici e digitali.
Occupiamoci piuttosto di farle, le fotografie, analogiche o digitali purché buone, purché potenti.
O anche frivole, “inutili” ed estemporanee, se ci aiutano a dialogare con qualcuno, usandole come parole condivise.
Chi questo passaggio lo ha attraversato, e ha portato le “buone pratiche” legate all’analogico nel digitale, difficilmente ne può negare i molti vantaggi, al netto dell’abuso e dell’indigestione compulsiva che talvolta contagia chi invece inizia direttamente dall’apparente onnipotenza della fotografia in salsa pixel.
L’occhio al mirino è sempre stato percepito come “il gesto fotografico”, giacché anche la macchina fotografica più modesta lo aveva, nel periodo storico della sua larga diffusione.
Pur presente ancora nelle macchine fotografiche reflex e mirrorless di fascia alta (sostanzialmente quelle rivolte ai professionisti e agli amatori più avanzati), nella maggioranza degli apparecchi di tutte le marche il mirino è stato oggi eliminato; per ridurre ingombri, costi, “complicazioni” tecniche.
E perché oggi si fotografa così, esattamente come con lo smartphone: guardando uno schermo, con le braccia tese, il congegno lontano da sé, quasi sospeso tra noi e il mondo. Questa, io credo, la perdita più grande e più vera.
Persa la dimensione intima, la concentrazione, la riflessione, l’esatta percezione dell’inquadratura e dunque della composizione, il contatto fisico con la macchina fotografica come vera protesi dell’occhio e “organo” del nostro corpo. Perso il campo buio con quella magica, silenziosa e potente finestra in presa diretta sulla vita. Qualcuno potrebbe far notare che già con gli apparecchi a pozzetto (tipo Rolleiflex, Hasselblad, ecc.) si era perso il mirino diretto e non si portava la macchina all’occhio; ma, in proposito, Henri Cartier-Bresson ebbe a dire che se il buon Dio avesse voluto che si fotografasse con una 6×6, ci avrebbe messo gli occhi sulla pancia.
E così, ora, in assenza del mirino e del suo rifugio, siamo nuovamente travolti dalle cose, immersi e sballottati nel flusso che non riusciamo a catturare perché è lui a catturare noi. Non siamo più abbastanza “fuori” per essere davvero “dentro”.
Non scegliamo come e quando essere nelle cose, ci siamo e basta, nostro malgrado.
Prima ancora che la realtà, è il mirino il campo d’azione del fotografo: estremizzando, via il mirino, via un mondo da osservare. Resterebbe solo un mondo da vivere – e non è poco, si dirà – ma qui sta il grande cortocircuito tra fotografia e vita. Non a caso ancora lui, Cartier-Bresson, affermava – quasi a nome della categoria – che “Fotografare è un modo di vivere”.
Il fotografo vive fotografando e fotografa vivendo. Per favore, a questo tipo di fotografo non togliamo il mirino – suo cordone ombelicale col mondo – rischierebbe di perdersi anche se la sua nuova macchina fotografica ora ha… il GPS.