Il governo ha adottato una chiave di lettura corretta degli ostacoli al lavoro femminile e di come superarli. E dunque è intervenuto con gli incentivi sul lato delle imprese e con l’estensione del congedo parentale su quello delle famiglie. Ma ci sono ancora elementi critici, dal fisco ai servizi.

di Alessandra Casarico e Daniela Del Boca (Fonte: Lavoce.info)

I numeri del divario

Cosa è accaduto alla partecipazione femminile al mercato del lavoro nei due anni del governo Renzi? Il divario occupazionale tra uomini e donne, dopo una riduzione nel periodo della crisi, ha ripreso a salire, anche se in misura modesta, a causa di un tasso di occupazione femminile sostanzialmente costante e uno maschile leggermente in crescita (Figura 1). Se poi guardiamo più nel dettaglio all’ultimo anno, tra il terzo trimestre 2015 e il terzo trimestre 2014 notiamo una crescita pari al 2,9 per cento (+37.426 unità) dei contratti attivati a lavoratori uomini (dati ministero del Lavoro), che tuttavia è completamente compensata dalla diminuzione delle contrattualizzazioni femminili, che scendono del 3,1 per cento (-36.833 unità), generando un saldo nullo di avviamenti su base annua. Anche il confronto tra i settori mostra differenze di genere. Nei servizi l’occupazione maschile sale (+1,6 per cento), mentre quella femminile scende (-3,4 per cento); nell’industria il trend è simile: + 0,2 per gli uomini e -2,7 per cento per le donne. Il tasso di occupazione femminile gravita attorno al 47 per cento ormai dall’inizio del 2000. Sono state e saranno efficaci le misure introdotte in questo biennio per fare uscire l’occupazione femminile dalle secche?

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Decontribuzione e congedo parentale

La decontribuzione aiuta la domanda di lavoro, ma è a termine (Tortuga e Garibaldi). L’estensione del periodo di congedo parentale prevista dai decreti collegati al Jobs act dovrebbe garantire una maggiore flessibilità nel suo utilizzo, ma incide poco sul periodo più critico per la partecipazione femminile al mercato del lavoro, che è quello in cui i bambini sono piccoli. Gli incentivi per le imprese che ricorrono al telelavoro e la legislazione sullo smart working rafforzano gli interventi sul lato della domanda, riducendo per le imprese i costi di organizzare il lavoro in maniera meno standardizzata e più aderente ai ritmi richiesti dalla combinazione di lavoro e famiglia. Il rifinanziamento e l’estensione a due giorni del congedo di paternità nel 2016 segnalano l’attenzione per il tema della genitorialità e della condivisione. Tuttavia, non sono ancora stati valutati gli effetti di questa politica.

Le criticità

L’intervento congiunto sul lato delle imprese e su quello delle famiglie che sembra aver guidato le misure adottate dal governo è una chiave di lettura corretta degli ostacoli al lavoro femminile e degli ambiti in cui intervenire per superarli. Ma ci sono ancora degli elementi critici da considerare. L’offerta di servizi pubblici per l’infanzia non è aumentata ed è ancora ferma al 12 per cento, mentre nelle regioni del Sud è intorno al 5 per cento. Il governo ha deciso di sostenere le madri che lavorano investendo risorse nel finanziamento di voucher invece che nel rafforzamento dell’offerta dei servizi. Anche per il 2016 è stato infatti rifinanziato il voucher per la baby sitter e per l’asilo nido. Le neomamme potranno continuare a usufruire negli undici mesi successivi al rientro dalla maternità, al posto del congedo, di un assegno pari a 600 euro al mese per sei mesi, per pagare le spese di una baby sitter o di un asilo nido.

L’intervento ha l’obiettivo di incentivare le mamme a ridurre il periodo di congedo parentale e le uscite lunghe che le penalizzano sul mercato del lavoro e favoriscono spesso l’abbandono definitivo. Dal 2016, il beneficio è stato esteso anche alle lavoratrici autonome non parasubordinate (non iscritte alla gestione separata Inps) e alle imprenditrici, anche se per un periodo ridotto della metà. Sebbene l’estensione della platea di beneficiari sia senz’altro positiva, rimane ancora da chiarire se il voucher sia efficace quanto l’offerta dei servizi nel sostenere l’occupazione femminile. Di credito di imposta per le donne lavoratrici si è parlato molto. Nel Jobs act era stato previsto un intervento sul fronte fiscale per sostenere il lavoro femminile, ma la previsione non ha avuto seguito. Secondo i dati della Commissione europea, l’Italia disincentiva fiscalmente la partecipazione e l’aumento del numero di ore lavorate dei secondi percettori di reddito (tuttora prevalentemente donne) più di quanto facciano la Francia, oppure il Regno Unito e la Spagna (ma meno della Germania). Il disincentivo deriva sia dalla maggiore tassazione del lavoro che dai minori benefici a cui la famiglia ha diritto quando un nuovo reddito entra nelle sue casse. Il disincentivo sarebbe ancora maggiore se si considerassero esplicitamente i costi diretti che la famiglia è costretta a sostenere per la cura dei figli, quando non è più garantita al suo interno. Il tema del fisco e del work-life balance è sicuramente un capitolo da riprendere.

Buone notizie dai cda

Le uniche vere buone notizie riguardano la partecipazione delle donne ai vertici delle aziende. Uno studio del Pearson Institute for International Economics di Washington condotto su 91 paesi mostra che l’Italia, grazie alla legge 120/2011, è oggi tra i paesi con la più alta percentuale di donne nei board delle società quotate (dal 7,4 al 28 per cento circa, al secondo posto dopo la Norvegia). E le imprese dove almeno il 30 per cento del board è composto da donne conquistano un incremento del 6 per cento della quota di utile netto. Non c’è che sperare che il trend abbia ricadute positive sull’occupazione femminile nelle imprese (anche se neanche per la Norvegia sembra emergere un effetto del genere), ben oltre il governo Renzi.

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