Dario Faini racconta la nascita dell'album "Birth" e la fa in parole e immagini grazie a un mini documentario girato in Islanda durante la registrazione dell'album
Novembre sembrerebbe “il mese anti-turisti” per visitare l’Islanda e, appunto per questo, mi incuriosiva l’idea di viaggiare a sud nella solitudine più totale, con la luminosità tiepida delle giornate corte. Sveglia all’alba e a letto presto. La settimana era quella dell’“Iceland Airwaives Music Festival” a Reykjavic, il fatidico appuntamento islandese diretto e promosso negli anni da Bjork: abbiamo suonato in uno dei tanti palchi del festival il giorno dopo la fine delle registrazioni del nostro disco.
La cruda realtà è stata, dunque, trovare Reykjavik abbastanza “affollata”. Forse i 100 milioni di views di “I’ll Show you” di Justin Bieber, girato proprio in Islanda un mese prima, stavano già facendo effetto. Il “The Reykjavik Grapevine”, il magazine più cool per islandesi e turisti, pubblicava giornalmente e in maniera apocalittica post preoccupanti sull’invasione aliena turistica post-Bieber.
Se hai pochi giorni per rimanere in Islanda, “Il Circolo d’Oro” è la meta più vicina e oserei dire ovvia dato che, nel raggio di pochi km, puoi raggiungere tre tra le mete più imperdibili: il Parco Thingvellir, la cascata Gulfoss e il fatidico Geysir. Pur non avendo tantissimi giorni a disposizione, noi abbiamo comunque voluto inoltrarci ed arrivare fino alla parte opposta del sud-est, praticamente fino a Hofn. In questo capitolo vedrete immagini di Gulfoss e il Geysir del “Circolo D’oro”, ma anche la meravigliosa cascata “Skogafoss”. Il primo titolo che avevo pensato per l’album “Birth” era proprio “Geyser”: una delle componenti stilistiche di Dardust è, infatti, il concetto di tensione, aspettativa ed attesa che porta poi all’esplosione, esasperato ai massimi livelli. In Dardust ricorrono crescendi fatti di synth, archi, noise quasi al limite della sopportazione, che guidano e condizionano per contrasto l’ascolto di ciò che avviene dopo.
Da laureato in “Psicologia Clinica” con la tesi sull’ “Ascolto Musicale” ho sempre indagato con passione un certo tipo di dinamica dell’ascolto. Il “Geyser”, simbolicamente, rappresenta meravigliosamente questo concetto dell’attesa, della tensione fino all’esplosione e in brani come “Don’t Skip” (traccia #6 della album, ndr) c’è questa visione musicale. Piccola parentesi: al brano abbiamo aggiunto un sottotitolo, “Don’t skip, beautiful things always happen in the end”, proprio perché, come dicevo nel primo capitolo, in questo “periodo streaming” la fruizione musicale e l’attenzione sono messe a rischio dal bombardamento di mille stimoli, a meno che non ci si trovi ad ascoltare un brano che catturi l’attenzione nei primi 10 secondi. In “Don’t skip” l’esplosione, lo “stimolo atteso”, arriva dopo un minuto e il momento clou e “meraviglioso” del brano è creato proprio dal crescendo di tensione.
Altra tappa del viaggio è stata “Vík”. Quando ho momenti di depressione o di forte stress, penso sempre che al mondo esiste un posto come VÍk dove poter andare e anche se è difficile crederlo, in un attimo mi passa tutto. Esiste, è lì e quindi questo basta. Una spiagga nera e tre giganti sullo sfondo, tre faraglioni imponenti che stanno lì, in questo paradiso del nord. Tramonto, nebbia, pioggia, vento, non cambia. E’ pura magia. A noi è capitata una tempesta di pioggia e vento gelido violentissimo. Guardate quel faro alla fine del video: è arrivato nel momento esatto prima di spegnere la telecamera. Convinto che quella ripresa, in quelle condizioni, non sarebbe servita a niente, avevo deciso di spegnere tutto e invece…. tac, un faro, nell’ultimo secondo. Quale contraddizione, per me: avevo già intenzione di “skippare” e invece quella cosa meravigliosa è arrivata proprio alla fine. Esattamente. Beautiful things always happen in the end.