Quello che i giornali italiani non scrivono. Dopo la pompa mediatica degli organi di (dis)informazione nostrani mi imbatto nel pezzo informativo di Renzo Cianfanelli, già corrispondente di guerra del Corriere della Sera, ora consulente alle Nazioni Unite di New York ed editorialista del Us-Italy Global Affair Forum, insomma uno con tanto di curriculum. La sua penna arguta diventa un bastone, spesso una clava, quando si tratta di stigmatizzare comportamenti sociali degli italians, più o meno noti, in trasferta atlantica.
Ce n’è per tutti. Ora Cianfanelli ha puntato Sergio Mattarella, in visita presidenziale negli Stati Uniti. E titola il suo pezzo: “Fail if you must, but next time fail better”, tradotto grosso modo: se devi fallire, fallisci meglio. E come si traduce in inglese “figura da peracottaro?” si chiede Cianfanelli facendo seguito all’intervento di Helena Andrews-Dyer, giornalista brillante assai dell’autorevole Washington Post, autrice di un racconto dettagliato e ironico dedicato al presidente italiano. Una domenica di febbraio Helena è stata svegliata da un suono assordante di sirene di auto e motociclette, servizio d’ordine imponente, misure di sicurezza da grande summit e blocco delle strade per far passare il corteo. Cosa sta succedendo? Nulla di importante, Mattarella, appena sbarcato nella capitale, si concedeva un tour della città, con irrinunciabile messa e ristoranti alla moda come il Warehouse Bar & Grill, accompagnato dall’ambasciatore italiano Bisogniero e un codazzo di attaché. E intero pomeriggio trascorso alla National Gallery of Art.
Per carità niente di male, ma visto che il presidente da pari a pari, incontrava Obama la mattina dopo nello Studio Ovale (mica ai giardinetti pubblici) per una visione globale sulla cooperazione transatlantica per sconfiggere l’Isis non guastava rivedersi un po’ le carte su quello che avrebbe detto, o meglio, su quello che non avrebbe detto. Magari Mattarella (e giuro che provo simpatia per l’uomo e per il suo impegno anti-mafia) è insonne – chi può dirlo – e avrà studiato tutta la notte. “Magari familiarizzare un pochino con quello strano idioma che si chiama inglese, no?”, suggerisce Cianfanelli insinuando che i politici italiani avrebbero tanto food for thought da qualsiasi talentuoso e anonimo PhD o master universitario. Oh, yes!
Ecco, lo ha detto, anzi lo ha scritto, nero su bianco: peso piuma siamo nello scacchiere internazionale, ma ci diamo tante arie da fanfaroni. A New York intanto Mattarella visitava tre musei e l’isola di Ellis, porto di sbarco dei nostri immigrati, e poi la solita scena muta (neanche un nice meeting you gli è uscito di bocca) al Palazzo di vetro dell’Onu.
Cosa ti sei messo in testa, mr. Trump?
E visto che siamo in odore di elezioni presidenziali, nuove professioni emergono. Come quella del parrucchiere di Donald Trump, candidato alla poltrona di presidente degli Stati Uniti. Dire coiffeur è riduttivo, direi piuttosto scultore di chiome, re/inventore del riporto: un ciuffo sparuto di capelli gli cresce ancora sulla nuca e a mo’ di toupet gliela fa girare intorno alla testa. E per quella improbabile acconciatura si aggiunge la ricerca di quel colore biondo/rossiccio che ha la stessa tonalità della faccia imbolsita. Eppure pare che Trump in pieno delirio di libidine poteriale ( non si dice ma il neologismo ci sta tutto) sia proprio in “testa” alle preferenze degli elettori. Mah, si vedrà…