Il Regno Unito avrà uno statuto speciale e ora David Cameron cercherà di convincere i cittadini britannici chiamati al referendum a votare per restare nell’Unione Europea. “Ora potrò raccomandare di votare sì al referendum” di giugno, ha detto il premier conservatore dopo la maratona negoziale durata 40 ore conclusa con l’accordo stretto con Bruxelles. Dice che lo farà con “tutto il cuore e l’impegno”, cercando di convincere gli elettori che è meglio riformare l’Unione europea da dentro e restare nel mercato interno piuttosto che uscirne e rinegoziare 27 accordi bilaterali. Ma la strada si annuncia in salita: i sondaggi danno i fautori della Brexit in vantaggio di due punti. I cittadini britannici saranno chiamati a votare il 23 giugno, ha annunciato Cameron.
Il referendum rappresenta “una delle maggiori decisioni che il Regno Unito dovrà affrontare nel corso della nostra vita”, ha detto il premier davanti a Downing Street dopo la riunione di Gabinetto. “La scelta è nelle vostre mani”, ha detto in un appello diretto agli elettori. “Ma la mia raccomandazione è chiara. Credo che il Regno Unito sarà più sicuro e più forte restando in un’Unione europea riformata”.
L’inquilino di Downing Street rivendica che grazie alla sua battaglia la Gran Bretagna avrà “uno statuto speciale”, che “non farà mai parte del super Stato europeo”, né mai di “un esercito europeo”. E ancora, sostiene che il Regno Unito ha costretto l’Europa a “tagliare la burocrazia“, anche se è esattamente uno dei punti del programma di Jean-Claude Juncker. E assicura che Londra ha “riconquistato il controllo” sulle sue frontiere, riuscendo a bloccare gli abusi dei lavoratori europei che “sfruttano il nostro sistema di welfare“.
Quello che ottiene è di poter limitare l’accesso ai benefici (spalmato su quattro anni) per 7 anni fino al 2024. Concettualmente è uno strappo per l’Europa, che non ha mai ammesso discriminazioni. Aveva però chiesto uno “freno d’emergenza” di 13 anni. E a chi gli fa notare che ha avuto poco più della metà, replica che “nessuno pensava che sarei mai riuscito ad ottenere alcun limite”. Cameron riesce a far passare anche l’indicizzazione degli assegni per i figli rimasti in patria dei lavoratori europei emigrati nel Regno Unito, che saranno pagati in base al reddito medio del Paese di residenza. Deve ingoiare che nessuno dei benefici sarà retroattivo, e che l’indicizzazione piena scatterà solo dal 2020.
In compenso il premier britannico martella sul recupero di sovranità, sul fatto che in una futura riscrittura del Trattato sarà esplicitamente scritto che il concetto di “unione sempre più stretta”, su cui si fonda la costruzione europea sin dai Trattati di Roma del 1957, non si applicherà più alla Gran Bretagna.
Nel testo finale dell’accordo resta un grado di autonomia per banche, assicurazioni e istituzioni finanziarie della City dal ‘single rulebook‘ europeo. Era il punto più delicato del negoziato, quello su cui François Hollande ha fatto da testa di ariete, col sostegno di Germania, Italia, Lussemburgo e Belgio. L’autonomia alla fine è ridimensionata dal ripetuto richiamo all’obbligo di rispettare “condizioni di parità nel mercato interno”. E la City non sarà esente da dover rispettare anche eventualmente aumentati poteri delle authority europee di controllo, come Eba e Esma.
“Credo sia un buon compromesso, il bicchiere è più pieno che vuoto, direi tre quarti pieno”, commenta Matteo Renzi, aggiungendo di non considerarlo “un pastrocchio”. “Qualche cultore – aggiunge – può pensare che sia un precedente, ma penso sia stato meglio fare chiarezza con il Regno Unito che andare avanti con un atteggiamento ondivago“. Per il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, “oggi abbiamo inviato il segnale che siamo disposti a sacrificare parte dei nostri interessi per il bene comune”.
Per la presidente lituana, Dalia Grybauskaite, è stata tutta “una sceneggiata”. E l’accordo, che si autodistruggerà se al referendum vincerà il ‘nò, da solo non basta a garantire la vittoria nel referendum-trappola ideato da Cameron per vincere le lezioni di maggio scorso battendo Labour ed euroscettici dell’Ukip. Proprio Nigel Farage, leader dell’Ukip, boccia l’accordo come “patetico”: “Andiamo via dall’Ue, è la nostra occasione d’oro”, twitta in nottata. E anche i Tory sono pronti a dividersi. Non tutti seguiranno Cameron. Anche il ministro della Giustizia Michael Gove, un pezzo da novanta nel governo, farà campagna per il no. Un brutto colpo. Che Cameron mostra di assorbire con disinvoltura: “Lo conosco da una vita. Mi dispiace, ma non mi sorprende”.
Dalla parte di Cameron si conferma senza sorprese il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, che in un’intervista alla Bbc ha salutato l’accordo di Bruxelles come “un cambiamento sostanziale, fondamentale” ottenuto dalla Gran Bretagna.
Anche fra i deputati Tory si alternano fin da queste ore commenti di segno opposto. Anne-Marie Trevelyan si è aggiunta per ultima allo schieramento pro-Brexit, sostenendo che il testo dell’accordo di ieri conferma che nella sostanza “nell’Ue non cambia nulla“. Mentre il cameroniano Stephen Hammond voterà per restare in Europa poiché a suo dire “nell’accordo c’è un grande cambiamento… a vantaggio della Gran Bretagna”.
Infine, il ministro degli Esteri ombra laburista, Hilary Benn, confermando che il Labour è contro la Brexit salvo “poche eccezioni”, ha liquidato il faticoso negoziato di Bruxelles come il frutto dei giochi di politica interna di Cameron. Il premier “era troppo debole per affrontare il suo partito”, ha detto, denunciando che i Tory mantengono un’anima anti-europea e sono “aspramente divisi” sulla Brexit.