La cosa più disorientante è che non riesco a liberarmi da questa impressione: sto andando a Milano per parlare con Eco della morte di Eco, e rivedere insieme quella marea di cose fatte che richiedono una grande mente per essere narrate con ordine e restituire a ciascuna il senso che ha avuto. E quando ti rendi conto che non funziona così, comincia a insediarsi il lutto, che a colpi, a scatti, a sorprese (un po’ i ricordi, un po’ i fatti) si rivela una esperienza assurda. Non c’è rifugio ma fai barricata coi ricordi.
I giorni di Eco sono talmente tanti che non corrispondono a un calendario e non sono la somma del tempo vissuto. Sono strisce di cose pensose, festose, inattese, tra cultura e invenzione, tra erudizione profonda e battuta azzeccata, tra diario e anticipazione (potrei anche dire “profezia”, ma temo il suo piemontese rancore verso la retorica e la celebrazione) che non puoi fare un tuo personale bilancio, per quanto ti proclami “amico di una vita”. E’ vero, sarebbe un modo di fronteggiare il peso eccessivo di ciò che è appena accaduto (Umberto Eco è morto) e che è un controsenso, con quel tipo vita che, come certi film, non si presta al riassunto. Potresti dire che lo conosci da tanto, ma quel tanto poi lo devi moltiplicare per tanti modi di essere, agire, capire, lavorare, pubblicare, esistere e lasciare impronte in parti del sapere e in parti del mondo e dentro culture diverse che allargano enormemente lo spazio, finché persino tu, che credi di esserci sempre stato, sei un punto fra altri che hanno partecipato o testimoniato di una vita che ha stupito molto, ha creato ammirazione e sorpresa mentre scorreva e dava l’impressione di durare sempre.
Un’immagine del ’93 con Umberto Eco e Furio Colombo alla presentazione di un libro di Monica Vitti. Con loro anche Andrea Barbato
Mi ricordo due scene sul treno della Cina, destinazione Pechino, sulla via della seta, tanti anni fa (come dirò ai suoi nipoti). In una siamo seduti per terra in un treno affollato, circondati di bambini perché stavamo cantando canzoni alpine italiane, e i bambini cinesi, abbastanza intonati, si accodavano, al punto che Eco (che sapeva di musica e suonava parecchi strumenti) ha cominciato a insegnare, far ripetere, dirigere, e dopo un po’ tutto il vagone seguiva. In un’altra scena, alcuni di noi erano il pubblico di una disputa linguistica fra Eco e i giovani professori cinesi che ci guidavano. E il tema della discussione, in inglese, era: quella specie di altarino che nell’ideogramma cinese si disegna sotto le parole riferite al potere sono un gradino? Sono un altare? Sono un atto dovuto?
“La Nave di Teseo” è stata l’ultima avventura vissuta insieme. Come ai tempi della Rai (ricordate? il concorso) come ai tempi del Gruppo 63 a Palermo, come ai tempi del Dams a Bologna, come ai tempi del viaggio in Cina, come ai tempi della Academie des Cultures presieduta da Elie Wiesel dove si discuteva e lavorava ogni anno, a Parigi, con Jacques LeGoff, Toni Morrison, Wole Soynka, Luciano Berio, Umberto e io avevamo l’impegno di preparare per l’Academie, un programma scolastico online di educazione alla pace, per le scuole elementari, come ai tempi dell’Istituto di Cultura di New York, che allora io dirigevo, dove dialogavano con lui, di volta in volta, (“le conversazioni in pubblico”) Susan Sontag o Vanessa Redgrave, come alla Columbia University, dove un 25 Aprile è stato celebrato da Umberto insieme a Giorgio Strehler. Davanti a una folla di professori e studenti.
Ma “La Nave di Teseo” è stata forse l’evento più sorprendente e più giovane per uno scrittore che aveva già inondato il mondo con milioni di copie in tutte le lingue, ma non ha permesso di cambiare l’editore storico italiano per ragioni commerciali che non lo riguardavano. “Io non sono in vendita”, ha detto al suo editore Bompiani (parte del gruppo in vendita Rcs). E tutta la Bompiani, a cominciare dal suo capo, Elisabetta Sgarbi, e molti autori anche grandi e consapevoli del rischio, lo hanno seguito senza pensarci. Al nipote teenager Emanuele, che spesso è stato compagno di conversazione del celebre nonno (che però era nonno assoluto, fino al punto da andarlo a prendere a scuola quando il primo dei suoi nipoti era bambino) che gli aveva chiesto: “Perché lo fate?” aveva risposto, da piemontese un po’ risorgimentale e privo di retorica: “Perché si deve”.
E adesso abbiamo la ragione per continuare, impedendoci però di dire che lo facciamo “in suo nome”, per evitare i fulmini del suo disappunto piemontese per le celebrazioni.
I flash di memoria, che giungono, come è inevitabile, in disordine e non obbediscono alla sequenza del prima e del dopo, sono utili con Eco, a causa di un tratto unico della sua vita. Non è di quelli che maturano (come in tante biografie americane) e fanno mille mestieri e un po’ di frequentazioni sbagliate prima di diventare il genio. Umberto è saltato in scena allegro come si è allegri a vent’anni, niente affatto spaesato in un villaggio come la Rai, che non sapeva di essere già globale ma lo era, e si è accorto subito di abitanti molto strani e molto diversi, come Mike Bongiorno e Luciano Berio. Negli stessi anni che si potrebbero chiamare avanguardia dell’avanguardia, Eco ha scritto La fenomenologia di Mike Bongiorno e ha lavorato con Luciano Berio a quel Omaggio a Joyce che è diventato il primo testo musicale della grande e bella produzione musicale di Berio, su lavoro letterario di Eco (quasi nessuno conosceva Joyce) e con la partecipazione, di cui mi vanto ancora, della mia voce. Intanto John Cage, padre dell’avanguardia di tutti i luoghi, i generi e i tempi, veniva a mangiare con noi a casa di Berio (la moglie era allora Cathy Barberian, dalla voce indimenticabile) in attesa di presentarsi a Lascia e Raddoppia come concorrente (alla fine vincente) nello show di Mike Bongiorno.
L’enciclopedismo che Umberto prescrive ai più giovani come fondamento del nuovo c’era già in pieno, nell’Eco giovane che non ha mai smesso di scrivere, di ridere, di insegnare e di trasformare la cultura alta in romanzo. C’era già l’idea della scuola che tutti vanno cercando, ripetendo a volte la sciocchezza dello studio simile il più possibile al lavoro, invece che formidabile esercizio di intelligenza. Ma è urgente, e questo è il punto duro e insopportabile del lutto, parlarne con lui.