La notizia della morte di Umberto Eco tocca ognuno di noi in modi diversi, ci intristisce per ragioni diverse. Certo l’Italia di questa mattina non sembra più la stessa, come se quell’intellettuale gargantuesco, formidabile, ironico, capace di usare tutte le corde della cultura per capire, criticare, innovare e divertire fosse un punto di riferimento per tutti noi e insieme una marca dello spirito italiano esportata nel mondo intero, l’unico nome italiano conosciuto anche nei villaggi più sperduti della Cina o delle Ande.
Uomo del Rinascimento, versato in tutte le discipline possibili, genio linguistico, grande filosofo, inventore di nuove istituzioni accademiche, scrittore di best-seller, giornalista e critico corrosivo, Eco eccede qualsiasi classificazione, non rientra in nessuna casella e forse, proprio in questo, è stato il migliore rappresentante della cultura italiana, fatta di individui e non di scuole, di personaggi unici e irripetibili con una fantasia e una libertà di uscire dagli schemi che il mondo intero ci invidia.
Ognuno di noi lo ricorderà a suo modo, domandandosi perché e come ha contato nella propria vita. Molti studenti lo ricorderanno per il suo fondamentale libretto su Come si scrive una tesi di laurea, gli accademici per L’Opera aperta e i suoi trattati di semiotica, i più probabilmente per i romanzi, che hanno ritmato la vita letteraria italiana dall’apparizione folgorante nel 1980 de Il Nome della Rosa, che tutti, ammiratori e detrattori, leggemmo appassionatamente, incollati la notte a quell’intrigo medievale come a una telenovela brasiliana…
Ciò che mi preme ricordare oggi, nella miriade dei suoi scritti, sono forse gli scritti meno “nobili”: né i grandi trattati di semiotica, né i best-seller internazionali, ma quegli scritti minimi, i pezzi di costume, i commenti goliardici alla cultura accademica, insomma gli articoli di giornale raccolti nel primo e nel secondo Diario Minimo, libri che sono stati sul mio comodino per tutta la mia giovinezza (per non menzionare altri luoghi intimi della casa!) e che al liceo con i compagni solevamo aprire e leggere a voce alta facendoci grasse risate, un modo di esorcizzare la cultura alta che ci propinavano a scuola e imparare a farcene beffa pur rispettandola.
In questi articoli semi-seri, modestamente raccolti in una serie di libretti dal 1963 agli Anni Novanta c’è tutta la grande sapienza di Eco, il suo sguardo disincantato sul mondo, il suo stile grottesco e parodistico capace di giocare con la cultura come fosse un mazzo di carte, perché, come dice Eco stesso nella prefazione alla seconda edizione del Diario Minimo, “una delle funzioni delle cose poco serie è di gettare diffidenza sulle cose troppo serie: questa è la funzione seria della parodia”.
Come dimenticare allora la Fenomenologia di Mike Buongiorno in cui il presentatore televisivo culto dell’Italia del dopoguerra veniva analizzato nel minimo dettaglio socio-culturale in uno stile irresistibile e profondo, molto più profondo di tanti tromboni che si considerano mass-mediologi: “Mike Bongiorno è privo di senso dell’umorismo. Ride perché è contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l’interlocutore sia simpaticamente anormale”. Sembra di vederlo Mike Buongiorno, con quella sua aria ottusa e contenta, personaggio esemplare di una cultura dei mass-media che seduce perché fa sognare la mediocrità, chiedendo allo spettatore nient’altro che di essere quello che è già.
Tra i miei preferiti resta le serie delle Istruzioni per l’uso, tra cui l’indimenticabile pezzo su come presentare un catalogo d’arte. L’artista immaginario, Prosciuttini, da trent’anni dipinge triangoli astratti intitolando i quadri, nell’ordine; Composizione; Due più infinito; E= Mc2; Allende, Allende il Cile non si arrende, Le Nom du Père; A/traverso… Il critico deve allora scegliere se presentare il catalogo con una lettera aperta: “Caro Prosciuttini, quando vedo i tuoi triangoli mi ritrovo a Uqbar, teste Jorge Luis… Un Pierre Menard che mi propone forme ricreate in altra età. Lascivie a centottanta gradi: potremmo liberarci della Necessità?” o usare invece uno stile scientifico: “I triangoli di Prosciuttini sono dei grafi. Funzioni preposizionali di concrete tipologie”, o ancora l’interpretazione politica: “I triangoli di Prosciuttini come forme che si rifiutano di essere valori di scambio”, oppure riferirsi alla metafisica influente dell’epoca e usare la teoria filosofica alla moda per scrivere: “I triangoli di Prosciuttini potrebbero, nel loro mutuo annullamento e rotazione “catastrofica”, apparire come una implosività del fallo che si fa vagina dentata”.
E poi, il progetto della Cacopedia, coltissima parodia del sapere universale elaborata nelle pizzerie di Bologna con un gruppo di amici e discepoli di Eco, un progetto di un’enciclopedia all’incontrario, una storpiatura del sapere che su chi, come me, viveva nella “regola monastica” del sapere accademico, aveva l’effetto di un gesto fantozziano liberatorio. Come la critica letteraria della conta: Tre Civette sul Comò, scritta in perfetto “accademese”, che cita il saggio immaginario strutturalista Les Chouettes di Jakobson e Lévi-Strauss “dove si mette in luce come i primi due ottonari presentino esseri infraumani (le civette e il comò) mentre i due seguenti presentano esseri umani e parimenti nel primo e nel terzo ottonario sono in scena dei soggetti, nel secondo e nel quarto delle azioni”.
Le parodie di Eco sono, letteralmente, da scompisciarsi dalle risate: è uno stile geniale, liberatorio e colto, che ammicca a chi sa ma non esclude chi non sa, che ride del sapere capendone insieme l’importanza e che, nella sua perfetta italianità, sa che non ci si può mai prendere sul serio fino in fondo. Eco ci ha insegnato che la cultura è importante perché ci permette di vedere le cose con distacco: anche la cultura stessa. In questo per me Eco è stato un maestro.