“Questo Orso d’oro mi carica di un’enorme responsabilità nei confronti della tragedia in corso dei migranti”. Ancora emozionato dal trionfo, Gianfranco Rosi sa perfettamente cosa l’attende. Perché un film del genere non può lasciare in pace nessuno, tanto meno chi l’ha realizzato. “Ho iniziato Fuocoammare un anno e mezzo fa, quando il dibattito sull’immigrazione in riferimento agli sbarchi a Lampedusa era concentrato sull’Italia. Ma, anche grazie a questa Berlinale, la questione si è estesa all’Europa se non al mondo. Lampedusa è come la porta dell’Europa, ma solo da poco ci si rende conto di quante persone stiano arrivando nel continente attraverso quest’isola”.
Alla conferenza stampa dei premiati, il cineasta accede con gli immancabili dottor Pietro Bartolo e il “fidato” Peppino, ed è ancora una volta il medico eroico dei lampedusani e dei migranti a guadagnarsi gli applausi più calorosi. “Mentre noi celebriamo la vittoria a Berlino a Lampedusa sta avvenendo uno sbarco di 250 persone, tra cui diversi bambini in difficoltà. Certamente sono felice di essere qui, ma io non sono un attore, sono un medico e mi occupo da sempre dei lampedusani e tutti quelli che arrivano sull’isola dopo aver sofferto per torture indicibili” spiega Bartolo. “Ringrazio la giuria, il festival di Berlino e soprattutto Gianfranco che mi ha fatto un enorme regalo: l’opportunità di mostrare al mondo cosa succede a Lampedusa. L’Orso va in letargo ma speriamo con questo film di fermare il letargo di chi non vuole svegliarsi. Tutti noi, come esseri umani, abbiamo l’obbligo di ricevere queste persone, ma per farlo bisogna creare condizioni dignitose di vita per farli tornare nel loro paese, lì dovrebbero vivere, perché nessuno vuole fuggire dal proprio paese se ci sono condizioni per viverci”. Le (ancora una volta) fortissime parole del “medico degli ultimi” scatenano commozione e applausi tra i giornalisti, il cui interesse è ora capire il reale effetto del documentario sulla materia che racconta.
“Anzitutto – risponde Rosi – porteremo il film a Lampedusa ma per proiettarlo a molte persone dovremo aspettare l’arena estiva, giacché sull’isola esiste solo la saletta cinematografica offerta da Rai Cinema che contiene pochi posti. Inoltre lo faremo circolare nelle scuole, la sensibilizzazione viscerale è la nostra speranza e il senso del lavoro fatto finora. Io stesso, finché non ci sono andato e rimasto del tempo, non mi rendevo conto di quel che vi accadeva quotidianamente a Lampedusa. All’inizio volevo solo raccontare l’isola, i suoi abitanti nella gestione del flusso migratorio. Ma poi è arrivata la tragedia, che letteralmente mi è venuta addosso”.
Gianfranco Rosi, che è nato ad Asmara vivendo poi a Istanbul e negli Stati Uniti, si definisce un nomade (“il mondo è la mia città”) ma non è rimasto insensibile alla provenienza del barcone “di cui la tragedia” descritta nel film. Ovvero Eritrea e Somalia. “Vedere quei volti che riconoscevo dalla mia infanzia africana è stato un grande impatto emotivo per me. Si è creato come un breaking point nel film che dovevo trovare il coraggio di filmare. Ho dunque cercato dentro di me la forza del dovere di girarlo. Dopo la scena dei cadaveri non sono più riuscito a filmare altre cose”. Considerato da alcuni “un film d’amore” – “e per me hanno ragione” dice il regista – Fuocoammare si è meritato a Berlino anche altri tre premi: quello della giuria ecumenica, quello di Amnesty International e quello dei lettori del Berliner Morgenpost. “La speranza – conclude il dottor Bartolo – è che da questa platea berlinese le nostre voci unite si alzino insieme: la mia, quella di Rosi, dei lampedusani e di voi giornalisti internazionali, perché dobbiamo portare le persone alla vita e non nei cimiteri”.