Sentenze, leggi, circolari ministeriali: "l'antilingua" di Calvino domina i testi di chi usa la parola scritta per lavoro. Il romanziere ex magistrato Gianrico Carofiglio fa una sintesi (spassosa) di com'è messo l'italiano nel linguaggio pubblico quasi sempre oscuro. E, dice lui, "antidemocratico". Le cause? "Pigrizia, narcisismo ma soprattutto esercizio del potere"
Come scriviamo male, noi che usiamo la parola per lavoro. I giornalisti e i politici con le loro metafore, i parlamentari nelle leggi, i funzionari nella Pubblica amministrazione e, con particolare impegno, avvocati e magistrati. Sentite qui. “Quanto sopra rappresentato, in considerazione dell’entrata in vigore della legge n. 203 del 14 novembre 2012, recante ‘Disposizioni per la ricerca delle persone scomparse’ con la quale si è inteso assicurare il coordinamento delle ricerche a livello locale coordinate dal Prefetto, si invitano le SS.LL, anche in concorso con le cennate istituzioni locali attive sul territorio, ad individuare specifiche iniziative per accrescere l’impegno istituzionale a sostegno delle suddette categorie di ammalati per innalzare i livelli della risposta pubblica alle loro istanze e a quelle dei familiari”. Questo è un brano di una circolare del ministero dell’Interno di qualche settimana fa. Il verbo che comanda l’intera frase arriva dopo oltre 40 parole. Si usa un aggettivo corretto – cennato – ma per il quale la Treccani deve ricorrere ad Ariosto. Le “suddette categorie” sono i malati di Alzheimer di cui si parla già nell’oggetto e per vari capoversi, come se si dovesse precisare per l’ennesima volta che di quei malati si parla, non di altri. Per la cronaca: la materia è il “rintraccio” delle persone scomparse. “Il rintraccio”.
Scrivi responsabilmente
L’ispiratore di questo gioco rivelatore è Gianrico Carofiglio che con la parola scritta lavora parecchio: fa lo scrittore (di successo), per lungo tempo è stato magistrato e per 5 anni ha fatto il legislatore (è stato senatore indipendente del Pd). “Se ti capita di aver fatto il magistrato e il parlamentare, e di scrivere libri, ti capita anche, piuttosto spesso, di sentirti chiedere cosa abbiano in comune (se hanno in comune qualcosa) questi tre lavori. La risposta è che queste tre attività così diverse fra loro hanno tutte a che fare con le parole e la verità. Meglio: con il potere delle parole e il dovere di usarle responsabilmente per dire, in forme e contesti diversi, la verità”. E all’improvviso e per caso ecco le 40 regoline di Eco per scrivere bene, un manuale che metteva già in fila tutto: “Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi…” eccetera.
La grande bruttezza
L’operazione di Carofiglio in questo libro è chirurgica, quasi schematica, eppure ha il risultato di essere una sorta di ricostituente dello spirito. La raccolta di esempi di italiano allungato, stropicciato, accartocciato, intrecciato, deformato, ridicolizzato è uno spasso, se non fosse che si parla di sentenze, leggi, comunicazioni aziendali, atti di ministeri, quindi cose serissime. Però, ecco: c’è chi provoca. “Le apparecchiature terminali per servizi di comunicazione elettronica da uso pubblico di cui alla lettera gg del comma 1 dell’art. 1 del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo del primo agosto 2003, n. 259”. Questi, secondo l’Agenzia delle Entrate, sono i cellulari. “Cosa difendono, esprimendosi in una lingua inutilmente oscura, i direttori di dipartimento, i burocrati, i politici, i giuristi? – si chiede Carofiglio – La risposta è piuttosto semplice: difendono il loro privilegio, la loro posizione altolocata”. Nei tribunali, per esempio, “sono ancora molto in voga l’eloquenza pomposa e barocca, il giro di parole, la perifrasi altisonante”. Una “complicazione indiscreta”, la definisce Bice Mortara Garavelli in Le parole e la giustizia, che producono testi “di inutile bruttezza”.
Pigrizia, narcisismo, abuso di potere
Le ragioni sostanziali dello “scrivere oscuro” secondo l’ex magistrato sono tre: pigrizia del gergo, narcisismo e esercizio del potere. Carofiglio è impietoso in particolare con il mondo che conosce meglio, quello delle aule di tribunale dove – come scrive in uno dei suoi thriller, La regola dell’equilibrio – si parla “una lingua sacerdotale e stracciona in cui formule misteriose e ridicole si accompagnano a violazioni sistematiche della grammatica e della sintassi”. E quella frittata di “stereotipi, arcaismi, circonlocuzioni ridondanti, frasi formulari, abuso delle subordinate” diventa la via più facile per farsi capire perché tutti, lì dentro, parlano così. Fin qui la pigrizia.
Ma poi c’è la vanità, che non a caso era il peccato che preferiva John Milton, cioè Al Pacino dell’Avvocato del Diavolo. “Periodi involuti e ardui, citazioni latine, figure retoriche ostentate, lessico inutilmente ricercato ed esibito sono solo prove di un virtuosismo antiestetico che nuoce all’efficacia ed è moralmente discutibile”. Ed è un’abitudine che ormai si tramanda nei decenni se non nei secoli, visto che il libro cita opuscoli dell’Ottocento che si raccomandavano uno stile “proprio, chiaro, spedito, conciso” e il giudice ritratto da Victor Hugo in un suo romanzo: “Odia il parlar preciso e mai chiamerà le cose col loro nome”.
Ma secondo Carofiglio è l’esercizio del potere la prima e più grave causa del linguaggio oscuro. Così, come spiega il costituzionalista Michele Ainis in La legge oscura, da una parte chi sta in alto ha l’interesse a non farsi capire in modo da non permettere a nessuno di mettere in discussione la sua posizione. E dall’altra una legge scritta in modo nebuloso avrà sempre bisogno di un “saggio” che la interpreta: la giustizia non più nelle regole, ma nel parere di chi le legge.
Kiss! Keep it simple, stupid
Gli esperimenti più divertenti sono con gli atti giudiziari. Carofiglio prende ad esempio un periodo di 192 parole in cui “gli unici punti sono per le abbreviazioni”. “Accumulando periodi lunghissimi, pieni di incisi e subordinate – scrive Carofiglio – molti si illudono di sembrare forbiti, ma al contrario stanno solo ostacolando la lettura. Quando si scrive, il modo migliore per arrivare dritti al punto è essere lineari. Evitare le digressioni, gli incisi e tutti gli altri elementi che
Il picco, invece, è raggiunto con le formule della pubblica amministrazione: normativa vigente, apposito cartello, uffici competenti. Come se si dovesse tenere conto di leggi abrogate, cartelli installati a caso e andare all’ufficio cultura per chiedere un certificato di morte. Il cimitero delle parole superflue d’altra parte potrebbe essere sconfinato. Fino alla perifrastica, una specie di horror che non ci spaventa più, davanti al quale siamo assuefatti. Sottoporre a controllo, apporre una firma, procedere a una verifica, invece di controllare, firmare, verificare.
Il “verbalese” e il tradimento delle parole
E fino alle storture del verbalese, con gli interrogatori tradotti da un normale italiano parlato da chi risponde alle domande a quello strazio con cui scrivono – secondo loro in modo corretto – ufficiali di polizia giudiziaria, ufficiali delle Procure e magistrati. Vale per tutti e per sempre il passo che conoscono tutti scritto da Italo Calvino sui fiaschi di vino trovati in cantina che diventano nel verbale della polizia “un quantitativo di prodotti vinicoli nei locali dello scantinato”. “Ogni giorno – concludeva ironicamente Calvino – centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua”. Il lato significativo e sottovalutato di questa storia è che il rispetto deve valere anche per la lingua degli altri. Quando ciò che viene verbalizzato da un interrogato o ciò che viene trascritto di un’intercettazione viene “tradotto” da forze dell’ordine e ufficiali giudiziari in quel modo che sembra formale e invece è solo brutto, il rischio è di cambiare non solo la forma, ma soprattutto il senso, la sostanza delle parole.
Quello di Carofiglio, anche usando l’ironia, è un piccolo manuale, un breviario come scritto in copertina. Da una parte cerca di dare consigli pratici su come scrivere in modo chiaro (e forse basta Orwell che li sintetizzava in: Potrei dirlo più brevemente? Ho scritto qualcosa di bruttezza non necessaria?). Dall’altra parte fornisce suggerimenti per una lettura consapevole: perché chi ha scritto, ha scritto in questo modo? Come si sarebbe potuto scrivere in modo efficace e onesto? Grossomodo tutte le regole di buon senso che anche questo articolo di giornale ha sistematicamente violato – anche con inutili interruzioni – fino all’ultima frase.
Test (non obbligatorio)
E ora, se non se ne ha ancora abbastanza, un ultimo esempio pratico. La sfida delle sfide. Questo passo della sentenza della corte d’appello dell’Aquila sulla commissione Grandi Rischi e sul terremoto in Abruzzo, quella che ha assolto tecnici e scienziati (resa definitiva dalla Cassazione). Provate a leggere ad alta voce.
“E allora, sia pure molto brevemente (il profilo della erroneità delle valutazioni scientifiche, come si è visto, non è oggetto di contestazione), pacifica la correttezza delle affermazioni relative all’impossibilità di operare previsioni deterministiche a breve termine sui terremoti (irrilevanti sono le minime differenze nelle locuzioni estrapolate dal verbale: “Non è possibile…; è estremamente difficile…; qualunque previsione non ha fondamento scientifico”, peraltro tutte dirette a censurare il “metodo” di Giuliani) e ribadito che la frase di Calvi, relativa ai danni “da attendersi”, si riferiva a quanto già accaduto, resta da verificare se fossero corrette – o, quantomeno, se non si possa affermare con certezza che fossero scorrette e/o errate – le valutazioni relative all’impossibilità di definire lo sciame un sicuro fenomeno precursore e all’improbabilità a breve di forti scosse, anche in ragione di periodi di ritorno “molto lunghi”, sintetizzate nelle seguenti frasi di Barberi e Boschi riportate nell’imputazione”.
No, non c’è il punto nemmeno qui. Nell’originale ci sono i due punti e seguono una serie di citazioni tra virgolette. Ma ilfattoquotidiano.it ha un limite di spazio e i lettori un limite di pazienza.