“I nuovi abitanti delle caverne non sono pescatori né sedentari. Sono uomini che trasmigrano. Non conosciamo la loro storia; sappiamo che hanno scelto, trovato questo luogo e non altri per sentirsi al riparo. A ridosso di una strada che diventa città, all’ombra di chi riposa e chi veglia, come antiche figure tra le mille altre che riempiono i luoghi dei nostri ricordi e delle nostre memorie sfocate. Forse è dal mare che provengono, come naufraghi abbandonati. Lì i loro corpi, sulla soglia delle nostre avventure.”
Inizia così il film documentario di Pietro Marcello “La bocca del lupo” (2009), vincitore del film festival di Torino e di altri premi. Con una voce fuori campo che scorre sugli scogli del Porto dei Mille di Genova; il mare infrange le sue onde come ciglia sul mondo, e schiaccia i sogni che a fatica avevano cullato fino a quel momento e dolcemente.
Il protagonista, la cui storia si fa raccontare frammentata attraverso la sua stessa narrazione, è Vincenzo Motta. Enzo a dire il vero. Siciliano doc, folti baffi neri, alto e dalle spalle larghe; uno sguardo penetrante. Lunghi solchi si incrociano sul viso e raccontano le innumerevoli vite trascorse, tutte a rincorrersi e a convivere in un’unica persona. Occhi neri e svegli, attenti, abituati a guardarsi le spalle, velati di difficoltà senza nome, ma vivi. Occhi incapaci di trovare riparo o nascondiglio; hanno voluto vedere o dovuto farlo, non si può sapere. Si portano dietro un velo di nostalgia, la violenza di cui si sono impregnati fuori e dentro il carcere, l’onore e il rispetto che hanno dovuto incutere ed esigere per sopravvivenza; nonostante tutto questo e molto altro, che non possiamo conoscere nel profondo, mantenevano la semplicità di un giovane uomo, e ogni estate lo si vedeva vendere angurie tra via Fossatello e via del Campo; lì, dove potrebbero nascere i fiori, e invece germogliano solo piccoli grandi sogni stretti dalla morsa dell’impossibile.
“Amore! Facciamo una cosa.. tu mi hai aspettato tanti anni, e adesso siamo quasi alla fine. Sai il mio sogno qual era, ti ricordi? La casa in campagna, con i cagnolini, le paperelle, il laghetto, coltivare ortaggi… Il mio pensiero era sempre quello. Penso sia anche il tuo sogno vero?”
Mary. Transessuale incontrata in carcere con la scusa di farsi cucire i pantaloni, capace in seguito di aspettarlo per quasi dieci anni all’ombra dei fossi, lungo quei vicoli di lanterne rosse che gli uomini della Genova bene più di altri conoscono, ma che in fondo non esistono. Scomodi e affascinanti in egual misura.
Mary ed Enzo. Una di quelle storie d’amore non comuni dove alcool, tossicodipendenza e malavita si intrecciano in vent’anni di vita insieme; storie dove il sacro e il profano si confondono e si perdono, abbandonati tra le piccole conquiste quotidiane e l’indifferenza, la solitudine e la speranza di momenti migliori, piccole gioie impronunciabili ma tangibili.
Qualche anno dopo il film, Mary muore. Lui la nomina e piange. Per anni. E con il passo lungo e scoordinato continua il suo cammino tra le strade strette, la chiesa di San Marcellino, e quella di San Benedetto al Porto; luoghi di accoglienza pronti a fare le veci di quella famiglia che diamo per scontata e che in tanti non hanno. Così Enzo continua a camminare. Spesso barcolla, ma il suo sorriso sdentato lo accompagna incredulo; e il suo saluto “Ciao gioia!” rivolto alle donne che incontrava nei suoi tragitti confusi e disordinati, risuona ancora nitido nelle orecchie di chi gli ha dato importanza.
E ora giudicate. Giudicate l’amore per la sua Mary, giudicate i suoi vent’anni di carcere e quegli spari che nel film rimbombano come fossero la sua condanna a morte. Giudicate le strade che ha percorso, l’odore di urina che si respira passandoci attraverso. Giudicate ogni suo passo, senza aver mai messo piede in quelle scarpe sgualcite dal tempo e dalle delusioni, ma cucite di speranza.
“Quando l’ho conosciuto, non avrei mai immaginato nascesse l’amore fra noi. Lui mi intimoriva, il suo sguardo mi metteva a disagio. Poi conoscendolo ho capito che sotto quella maschera da uomo forte e prepotente, si nascondeva un animo tenero e sensibile. Ha la dolcezza di un bambino sul corpo di un gigante, e così.. mi ha fatto innamorare.”
“Ciao amore ti sono mancato? Un bacio, ancora uno! Ti voglio bene, ti amo bbastarda!”
Vincenzo Motta, detto Enzo, muore all’improvviso giovedì 11 febbraio 2016 a distanza di sei anni dalla sua Mary.
Una storia come tante, una vita intera nella bocca del lupo.