Ultimo, solo all’anagrafe, è Emmanuel Lubezki, il direttore della fotografia messicano, impossibile da non candidare quest’anno per il lavoro monumentale e realistico effettuato assieme a Iñarritu e la maneggevole Arri Alexa 65 in The Revenant assicurando pienezza e saturazione di colori irrorati di controluce e di riflessi albeggianti. Lubezki ha appena vinto due Oscar per Birdman (2015) e Gravity (2014), dopo aver lavorato su ben tre set di Terrence Malick, e nel 2001 con Michael Mann per quel capolavoro granuloso e mimetico che è Alì.
In una categoria che dal 1940 al 1967 ha raddoppiato le statuette vincenti, una per i direttori della fotografia in bianco e nero, una per quelli che giravano a colori, non hanno mai avuto l’onore di vincere veri e propri talenti come l’alleniano Gordon Willis, il centenario Douglas Slocombe – luci e ombre dall’impronta originale della saga di Indiana Jones, o lo scorsesiano Michael Chapman. Per questo se dovessimo puntare su uno dei cinque nominati non punteremmo su chi ha appena vinto (Lubezki), ma su chi come Ed Lachman, ma ancora di più Roger Deakins, è rimasto a bocca asciutta per anni, quest’ultimo ben 13 volte.
Deakins è stato straordinario nel ricreare atmosfere plumbee, lunari e oppressive nel Sicario di Denis Villeneuve, regista con cui lavorerà nel nuovo Blade Runner. Impossibile si ripeta una premiazione strampalata come nel 2000 quando Dante Spinotti, che aveva letteralmente creato luce ed anima di Insider di Mann, venne battuto dalla scialba fotografia di Conrad Hall per American Beauty. Quest’anno ovunque cadrà l’Oscar come miglior direttore della fotografia finirà tra le braccia di chi se l’è meritato.