Era il lontano 1989, e il musicologo, compositore e pianista rumeno Roman Vlad affermava: “Il popolo italiano è tra i più musicali. Musicalmente è però tra i meno alfabetizzati”. Da allora non si è registrato alcun miglioramento, ma anzi stiamo assistendo, specie negli ultimi tempi, a un declino della sensibilità e della conoscenza musicale senza precedenti. Nell’epoca degli “internettualismi” da social network, i due canali educativi e formativi per eccellenza restano sempre e comunque la scuola e la televisione, ma mentre fino a qualche decennio fa la grande musica aveva un certo, e pur sempre esiguo, spazio sui canali della Tv pubblica, oggi, a parte casi veramente eccezionali, è completamente esule. Rai5 è diventato quel contenitore nel quale far confluire, di fatto ghettizzandolo, arginandolo, sminuendolo, tutto ciò che le dirigenze Rai non accettano più di programmare per i propri canali principali. I migliori concerti, le migliori prime d’opera, i migliori documentari sulle più grandi band della storia del rock, i più celebri direttori d’orchestra e tanto, tanto altro vengono di fatto esiliati su una Tv minore del palinsesto pubblico: il meglio, dunque, riceve l’esilio, mentre il peggio riempie la programmazione delle reti di maggior fruizione.
Il problema reale però, quello per cui sempre più spesso in Italia si sentono frasi come “Bella quella canzone di Mozart” e per cui teatri, auditorium e sale da concerto sono diventati ormai il “dopolavoro della terza età”, con una percentuale giovanile ai limiti del ridicolo (ciò contrariamente a paesi come Austria, Germania e Croazia, nei quali la grande musica d’arte gode di un pubblico decisamente intergenerazionale), il problema vero, dicevamo, è quello scolastico: non può esserci sensibilità alcuna per la musica d’arte se ciò non viene insegnato lungo quel percorso di studi che, anno dopo anno, porta i ragazzi verso la maturità.
Ancora oggi infatti non si riesce in alcun modo a comprendere come sia possibile che accanto all’insegnamento della storia dell’arte non vi sia quello della storia musicale: entrambe infatti, tanto le arti visive quanto quella musicale, in egual modo, in egual misura, hanno contribuito a rendere grande questo paese, sviluppando quella precipua identità culturale comunemente accettata in tutto il mondo. Perché, nelle nostre scuole, giustamente, si studiano i vari Michelangelo, Leonardo, Tiziano, Raffaello, Caravaggio e, ingiustamente, non si studiano i vari Verdi, Rossini, Vivaldi, Corelli, Puccini e Scarlatti? Perché ai tre anni delle scuole medie di studio (generalmente) del flauto non ne seguono, come per le arti visive, altri cinque di studio non solo della storia, ma anche della teoria, dell’estetica e dell’ascolto musicali? Obiettivo principale infatti non è quello di formare eserciti di musicisti (cosa che peraltro in Germania è pura normalità, come quella volta che conobbi uno studente Erasmus di medicina che, essendo nato e cresciuto in terra tedesca, suonava la chitarra jazz e il flauto traverso), bensì quello di formare un pubblico capace di discernere, in grado cioè di orientarsi autonomamente sapendo scegliere non solo in base a ciò che i circuiti mediatici propongono (o, visti gli ultimi trend, propinano), ma in base a un sistema di valori, conoscenze e a una sensibilità acquisiti nel corso degli studi.
Non è infatti un caso che mostre e musei d’arte ricevano visite da parte di intere generazioni di giovani e adulti che mai hanno messo piede, e mai forse lo metteranno, in un qualsiasi teatro d’opera, in un auditorium o in una qualsiasi sala da concerto: mentre verso le arti visive gli studenti degli istituti classici e scientifici vengono sensibilizzati per tutti e cinque gli anni di istruzione superiore, un’educazione musicale viene agli stessi negata, e questo nel paese che non solo ha dato i natali alla tradizione musicale occidentale, ma che vanta e ha vantato, in questo campo, alcuni tra i personaggi più importanti di ogni tempo. La causa principale per cui un amante dell’arte di Cézanne, di Piero della Francesca o del Brunelleschi possa al contempo dare forte credito artistico ai talent show e ai loro fenomeni stagionali, senza avere alcuna conoscenza e guardando con totale indifferenza ai grandi autori e ai grandi capolavori della musica, è infatti da ricercare nella totale mancanza di alcun insegnamento preposto nei nostri istituti superiori, ragion per cui l’unico ricordo che gli italiani hanno della formazione musicale è quello legato (a parte rari casi di buona didattica innovativa) alle spesso detestate ore di flauto dolce della scuola media.
Inserire l’insegnamento della musica nei nostri istituti superiori significa, alla lunga (e compito della politica dovrebbe essere quello di guardare al medio e lungo termine, non solo al breve), poter andar a risparmiare, in modo responsabile, sul gettito di finanziamenti di cui, nella totale assenza di un pubblico pagante di giovani e adulti formati ad hoc, fortemente abbisognano i nostri enti lirici e musicali. Formare un pubblico significa andare a sopperire alle mancanze di fondi e, di fatto, garantire la sopravvivenza e lo sviluppo della grande musica e dei grandi centri di aggregazione cultural-musicale.
Gentile ministro Giannini, gentile premier Renzi, quando inserirete l’insegnamento della storia della musica nei nostri istituti superiori? La Buona scuola cita a più riprese l’insegnamento musicale quale grave mancanza nel piano di studi dei nostri istituti di istruzione secondaria di II grado: quando vi attiverete per colmare questo enorme vuoto? L’Italia non ha più alcuna cultura musicale, e la responsabilità, in questi casi, è sempre di chi governa.