“Il Sud me lo ha già detto troppe volte
che non mi vuole
e io sono rimasto qui
a rifargli le suole
per calpestarmi meglio”
Franco Arminio
Nel 1946 Carlo Levi pubblicava il suo Cristo si è fermato a Eboli. Torinese, confinato in Basilicata, colse senza esitazioni le linee direttrici su cui si raggomitola la questione meridionale. Egli le rintracciò in ragioni esterne e interne al cuore del Sud. Quelle interne, di carattere eminentemente sociale, risalgono alla preminenza di una piccola borghesia intenta nella sua “lotta continua per arraffare il potere tanto necessario e desiderato, e toglierlo agli altri”. Una lettura invero simile a quella di Gaetano Salvemini, risalente a qualche decennio prima. Quelle esterne, legate alla distanza e al disinteresse, percepiti e sostanziali, di Roma: nuova capitale, distante e aliena, di uno Stato che, come tutti gli altri che l’han preceduto, si è fermato a Eboli, senza mai addentrarsi nel cuore pulsante della Lucania. E, simbolicamente, di tutto il Sud.
Poi, ci sono i contadini, di cui Levi si innamora, per la loro autenticità rassegnata e per la loro malcelata distanza spirituale rispetto ai signori locali, presi dal “contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana”. “Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue forme politiche, la sua struttura, i suoi programmi”.
Anche qui, Levi mi pare ricalcare il senso dell’intuizione gramsciana cogliendo la necessità di coinvolgere il ceto contadino nella dialettica politica.
Decenni dopo, Terracarne di Franco Arminio traccia un percorso, una ricerca attraverso tutto quel che di autentico resta del Sud. È un viaggio attraverso paesi che hanno mantenuto qualcosa d’intatto: nell’urbanistica concava, dalle forme aggraziate, non sfilacciata dai palazzinari, negli stili di vita degli abitanti che hanno strenuamente resistito a decenni di ondate migratorie. La paesologia impone di andare attraverso i paesi senza la pretesa di cambiarli. È “la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo“. È battaglia aperta verso lo stancante refrain del “Qui non c’è niente”, autorizzazione unica a qualsiasi forma di scempio.
È, forse, tardi per mettere in guardia gli abitanti di molti borghi meridionali dal rischio concreto di lasciarsi soffocare lo skyline da sgraziate superfetazioni di cemento, che ne hanno sfrangiato i contorni e sepolto la bellezza. E, inspiegabilmente, proprio dove le case continuano ad essere costruite, prosegue inesorabile l’emorragia demografica, specialmente nel Sud più profondo.
Arminio rilegge la questione meridionale con una tendenza ad aggredirne le linee di conflitto principali proprio nei rapporti sociali interni al Sud. Ciò, forse, per evitare che la sola lamentazione delle cause esterne dei divari possa produrre poca azione sociale, esacerbando soltanto i rancori di un qualunquismo immobilista. Nuove forme improduttive di atavici rancori, senza alcun utile risvolto.
Arminio, con amarezza, rilegge una profezia di Salvemini secondo cui, alla diffusione della corruzione nella piccola borghesia che ha invaso le pubbliche amministrazioni del Sud avrebbe fatto seguito una rivolta delle classi inferiori. Invece, osserva Arminio, in molti troppi casi, nel nostro Sud “non c’è più un popolo oppresso, solo singole persone indifferenti alle pratiche disoneste. La vigliaccheria spesso viene percepita come una forma di intelligenza e chi si lamenta dei torti che subisce è detto vittimista. In una situazione del genere è difficile individuare chi opprime e chi è oppresso. Spesso gli oppositori hanno gli stessi valori della classe dirigente”.
D’altro canto, non manca un’esortazione ai giovani del Sud, che mi ha molto toccato: “invito i giovani specialmente quelli del Sud alla ribellione, una ribellione nuova che cominci dallo sciopero dei consumi. La ribellione significa leggere, contestare i politicanti, proteggere la bellezza residua dei nostri paesaggi. Non vedo altra strada. Non c’è solo la crisi economica, c’è una crescente paralisi morale che dà spazio ai miseri di spirito e accantona i più sensibili”.
Il Sud dovrebbe cogliere guizzi vivaci da cui far sussultare nuove opportunità e prospettive. Penso alle tante coraggiose avanguardie attive del Sud, che fanno della tutela del proprio territorio una ragion d’essere. Penso alle lotte dei No Triv, che hanno riunito i governatori di diverse regioni del Sud, con una travolgente ondata popolare, di totale dissenso e mobilitazione. Penso alle battaglie strenue degli ambientalisti salentini, sul fronte della spinosa vicenda del piano di eradicazione degli ulivi, ritenuta dal governo nazionale un espediente per affrontare gli effetti del complesso da disseccamento che ha colpito le piante, in alcune aree della Puglia meridionale.
Mi è rimasta impressa la frase di un’attivista, Marcella Invidia, durante una nostra chiacchierata: “Siamo figli di contadini. Non taglieremo i nostri ulivi senza aver capito da cosa siano affetti”.
E il Sud che sta crescendo è fatto di gente così, innamorata. Dobbiamo esser capaci di recuperare i sogni accartocciati negli occhi di chi ha perso ogni speranza.