Le regole statutarie impongono a chi vuole uscire dal capitale di inviare comunicazioni a tutti gli altri soci e al presidente del consiglio di amministrazione: in tutto 1.277 persone. Così i risparmiatori che al momento della fusione per incorporazione nella Sviluppo Idrico spa non hanno esercitato il diritto di recesso si ritrovano incagliati
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando la società era quotata a Piazza Affari. Eppure i piccoli soci, che non accettarono il recesso, sono ancora tutti nel capitale di Acque Potabili spa. Non tanto perché credano nel business e nelle prospettive del gruppo quanto piuttosto perché si trovano intrappolati da regole statutarie che rendono antieconomica la vendita dei titoli. Come è possibile? Semplice: l’articolo 6 dello statuto di Acque Potabili spiega chiaramente che “l’alienante deve comunicare agli altri soci, nel domicilio risultante dal libro soci, e al presidente del consiglio di amministrazione, con raccomandata postale con ricevuta di ritorno, il numero di azioni che intende alienare, il potenziale acquirente, il corrispettivo e le modalità di pagamento e le altre condizioni essenziali”.
Tenuto conto del registro soci, il potenziale venditore dovrà quindi inviare 1.277 raccomandate al prezzo di almeno 5,45 euro ognuna. In pratica, il venditore dovrà sborsare almeno 7mila euro senza peraltro essere certo di chiudere positivamente la cessione. Il rischio è che il gioco non valga la candela, perché la dismissione potrebbe non riuscire a coprire il costo delle raccomandate. Risultato: i piccoli risparmiatori sono bloccati all’interno della società che lo scorso anno ha lasciato la Borsa di Milano in seguito alla fusione per incorporazione nella Sviluppo Idrico spa, controllata da Iren Acqua Gas e Società Metropolitana delle Acque Torino. In quella occasione, come spiega l’amministratore delegato di Acque potabili spa, Armando Quazzo, “ il diverso regime di circolazione delle azioni della società risultante dalla fusione è stato posto a conoscenza dei soci con significativo anticipo (sin dal mese di agosto 2014) tramite la pubblicazione dello statuto post-fusione (allegato al progetto di fusione) sia presso il Registro delle Imprese, sia sul sito internet della società”.
Certo, va detto che a settembre 2014, quando l’assemblea votò a favore della fusione, ai piccoli soci venne proposto l’esercizio del diritto di recesso a 1,105 euro. Non tutti gli azionisti trovarono però l’opzione conveniente e preferirono mantenere i titoli in portafoglio. Nell’immediato la scelta di restare soci si rivelò felice: Acque Potabili spa aveva infatti avviato un lucroso processo di dismissioni voluto dai due nuovi azionisti. Il piano di cessioni fece emergere una “riserva di avanzo di fusione” da 72,6 milioni di euro. Così, come emerge dal verbale dell’assemblea di bilancio del 25 giugno 2015, la società Acque Potabili staccò un dividendo straordinario di poco superiore ai 43 milioni di euro, pari a 5 euro per ogni titolo del valore nominale di un euro. L’operazione, come precisa Quazzo, consentì ai soci di minoranza rimasti di “godere di un trattamento sostanzialmente equivalente a quello dei soci che avevano aderito all’offerta pubblica di acquisto del 2014”. Oltre che di godere “ di tutti i diritti amministrativi e patrimoniali”. Il denaro finì infatti nelle tasche di tutti gli azionisti, inclusi i piccoli risparmiatori, che però poi sono rimasti “incagliati” nell’azionariato dell’azienda torinese. A meno che non riescano a trovare un nuovo socio e si accollino la spedizione un bel po’ di raccomandate, per la felicità delle Poste.