La Sindrome dei Balcani o Full Metal Balkanet ha colpito ancora. Questa volta è toccato al maresciallo della Folgore Mario Mele. E’ la 328esima vittima dell’uranio impoverito. Deceduto nella sua abitazione a Cascina (Pisa), il militare 59enne aveva preso parte a diverse missioni tra cui Kosovo, Iraq e Afghanistan. Alla fine di dicembre se ne era andato il napoletano Gianluca Danise di 43 anni, proprio lui che aveva ricomposto i corpi dilaniati dei colleghi vittime dell’attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003, lavorando a 40 gradi all’ombra per restituire i resti alle famiglie.
Anche lui vittima dell’esposizioni all’uranio impoverito. Eppure è passata quasi in secondo piano una storica sentenza della Corte d’appello di Roma dello scorso anno la quale ha riconosciuto ai familiari di un sottoufficiale morto di cancro, contratto in seguito al servizio ricoperto nella missione internazionale in Kosovo tra il 2002 e il 2003, il risarcimento di un milione di euro. Dalle mappe risulta che in Kosovo nel 1999 la zona posta sotto protezione del contingente italiano fu una delle più bombardate: 50 siti per un totale di 17.237 proiettili.
I militari italiani impegnati in Kosovo dal giugno 1999 tuttavia ricevettero la nota informativa che metteva in guardia dai pericoli relativi all’uranio impoverito soltanto nel novembre dello stesso anno. Nel frattempo si ammalarono militari italiani che non avevano mai prestato servizio in Kosovo ma in Bosnia (il caso di Salvatore Vacca, partito per la Bosnia nel 1998 con la brigata Sassari, ammalatosi al suo rientro e morto per leucemia nel settembre ’99).
Le patologie emerse sono sempre quelle: linfoma di Hodgkin, leucemia. Nel luglio del 1999 erano intanto iniziate le interpellanze del governo italiano a quello americano circa la reale quantità di proiettili all’uranio e le zone in cui essi furono usati, ma i dati arrivarono soltanto nel gennaio 2001: 31.000 proiettili in Kosovo, 11.000 in Bosnia. L’uranio impoverito è il residuo inerte che deriva dal trattamento di arricchimento dell’uranio. Veniva utilizzato nell’industria militare per corazze o per proiettili in modo da ottenere un elevato effetto penetrante. Oggi la disponibilità di leghe metalliche di elevata tecnologia che sfruttano la detonica unita all’elettronica producono effetti devastanti analoghi. Comunque al momento dell’impatto di proiettili ad uranio impoverito con ad esempio dei carri armati, si venivano a costituire nell’aria delle polveri sottili in grado, se inalate o ingerite, di depositarsi anche nelle cellule umane. Queste nanoparticelle si producono ad altissime temperature dell’ordine di 3000°C, al momento dell’impatto con successiva vaporizzazione. Le nanoparticelle di 0,1 micron, se respirate, raggiungono il sangue nell’arco di un minuto e dopo un’ora dall’inalazione si depositano nel fegato.
Le conclusioni della Commissione di Inchiesta istituita nel 2006 presero atto dell’impossibilità di stabilire sulla base delle conoscenze scientifiche un nesso diretto di causa ed effetto tra le patologie oggetto dell’inchiesta e i singoli fattori di rischio individuati nel corso delle indagini, con particolare riferimento agli effetti derivanti dall’uranio impoverito e dalla dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di metalli pesanti. Al tempo stesso però riconosceva il diritto alle vittime delle patologie e per i loro familiari al ricorso a strumenti indennitari previsti in tutti quei casi in cui l’amministrazione militare non fosse in grado di escludere un nesso di causalità. Ad oggi questa stessa incertezza all’italiana alimenta i vertici militari e le istituzioni con un grosso danno per le vittime.