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Il caso Totti dimostra che questo Paese non sa immaginare il futuro

Il tempo passa per tutti, anche per i capitani. Francesco Totti lo sa, ma si gioca le sue carte per uscire di scena come dice lui, magari strappare l’ultimo buon contratto. Lo sanno anche i tifosi ma, come i bambini che frignano dopo cena quando la mamma spegne il televisore per mandarli a letto, non si arrendono. Lo sanno i corifei della protesta nazionale, che per il loro tornaconto personale innalzano i loro peana di dolore ribellandosi sterilmente al naturale corso delle cose, della natura. Lo sanno tutti che il tempo passa e la cosa più sbagliata che si possa fare è far finta che non sia così, ma se ne fregano e continuano a recitare, ognuno la propria parte.

Eppure i termini della questione sono semplici. Da una parte c’è una società che sa di dover programmare le prossime stagioni, che deve decidere oggi su quali giocatori mandare in campo nei prossimi 2-3 anni a correre per 90 minuti per puntare agli obiettivi cui una presidenza che ha investito tanto come quella di James Pallotta ha dimostrato di poter aspirare. Ha temporeggiato, vero; non è stata un paradigma in fatto di chiarezza, vero anche questo. Ma deve guardare avanti.

Dall’altra c’è uno dei più grandi giocatori della storia del calcio italiano, e non solo, che a settembre compie 40 anni. Sa che il sogno non potrà durare a lungo ma non si arrende, magari vorrebbe giocare ancora, un’ultima stagione. O entrare nella dirigenza con una pensione in grado di non far rimpiangere troppo gli anni passati a correre dietro al pallone. Di certo vuole mettere in chiaro, ancora una volta, che l’ottavo re di Roma è lui e che non c’è Spalletti che tenga, che non c’è allenatore che possa dirgli alla Domenica Sportiva o dietro le porte di uno spogliatoio: “Francesco, non sei più un ragazzino, non corri più come una volta, devi accettarlo”. Lo sa anche lui che deve gestirsi e soprattutto essere gestito, ma non vuole sentirselo dire. Non può dirglielo Spalletti, non può dirglielo nessuno.

Intorno i cori da stadio, fisici e metaforici, che più o meno cantano all’unisono una sola canzone: “Totti ha ragione, Spalletti ha torto”. I politici, ad esempio, guarda caso sono tutti dalla parte del capitano: Veltroni (che è juventino), Martina (è uno che si nota poco, per chi non lo sapesse è ministro), Salvini (vabbè…), Marchini e Pedica (non pervenuti al di fuori del Gra), tutti a prendere le difese del capitano in tempo di elezioni comunali. Ovvio, il “popolo” sta con lui e i politici per mestiere cercano consenso: alle nostre latitudini almeno, in altri Paesi immaginano anche il futuro.

Perché il caso Totti è la manifestazione concreta dell’incapacità di questo Paese di guardare avanti, l’esemplificazione plastica della sua patologica mancanza di visione. Un’incapacità storica che parte dallo stesso Pupone che non si arrende, che passa per i tifosi che all’Olimpico fischiano la società che deve capire cosa fare di quel capitano, che transita attraverso una classe dirigente che si rinnova con estrema fatica e raramente le riesce di farlo in maniera credibile, e che culmina in un premier, sedicente rottamatore agli esordi, oggi specializzato nel mettere sempre gli stessi vecchi volti nei posti chiave del potere e che non perde occasione per ricordare che l’Italia è il paese di Dante, Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Che, appunto, sono morti da un pezzo.

Un Paese che non sa guardare avanti, governato (si fa per dire) da una classe politica senza alcun tipo di visione, incapace di pianificare per lui un futuro, in grado di immaginare con quale tipo di modello di sviluppo sostituire quello ormai estinto della vecchia industria pesante emigrata da anni all’estero e nel contempo senza uno straccio di idea per dare un avvenire alla piccola e media impresa che lo tiene a galla, ma che boccheggia sempre più esausta e senza una direzione.

Un Paese aggrappato agli antichi splendori, così antichi e lontani nel tempo da essere ormai soltanto un ricordo di epoche mai vissute da rispolverare tra le pagine dei libri di storia, annichilito fino all’indifferenza dalle proprie bellezze da non vederle né apprezzarle più tanto si è abituato ad esserne circondato, e che dalla curva di uno stadio fischia un allenatore perché portatore di idee societarie che puntano verso un fisiologico e necessario rinnovamento e non verso una incomprensibile quanto dannosa conservazione.

Totti merita rispetto, certo, per quello che è stato e per quello che ha dato. Ma arroccandosi in difesa del proprio status persino un campione rischia di somigliare a quei politici, dirigenti, professori, che non riescono a mollare la carriera, la cattedra, la poltrona.

Lo scudetto del 2001, il gol di sinistro al volo all’Udinese del 10 dicembre 2000, il pallonetto del 26 ottobre 2005 a San Siro contro l’Inter, ma anche il segno “quattro e a casa” strofinato sotto il naso della Juventus resteranno, quelle cose non gliele toglierà nessuno, né a lui né al popolo giallorosso. La bellezza del gesto tecnico – cos’è il calcio se non questo? Contare scudetti o coppe dei Campioni? Non solo, per fortuna – la poesia di sentirsi il più grande dei capitani che abbiano calcato l’erba dell’Olimpico con la maglia giallorossa: ha avuto tutto. Tutto. Ma ora per lui è arrivato il momento di crescere. E non solo per lui.

Ps. Sono romanista. Anche la mia giovinezza mi ha dato molto, per quanto mi riguarda più di quanto Totti abbia dato alla Roma, e l’ultima cosa che vorrei è lasciarla andare via. Ma questo accade giorno dopo giorno e so che non posso fare nulla per impedirlo.