Televisione

MasterChef, per fortuna che Antonino Cannavacciuolo c’è: il più genuino dei giudici, icona gay “bear”, dona nuovo smalto al programma

È lui l'uomo di cui MasterChef aveva bisogno per tornare umano? Sì, senza dubbio alcuno. Antonino Cannavacciuolo è decisamente meno inflazionato dei suoi tre colleghi, si è visto relativamente poco in tv, è più spontaneo (e in realtà ci vuole poco, a essere più spontanei di Cracco, Barbieri e Bastianich)

MasterChef, il re dei cooking show, è ormai una realtà consolidata nel panorama televisivo italiano. Era partito come un prodotto di nicchia, una roba che piace alla gente che piace, un vezzo per gli abbonati Sky, soprattutto per quelli dotati di un account twitter attivo e seguito. Con il passare delle stagioni (adesso siamo alla quinta), è diventato qualcosa di diverso, decisamente più mainstream. Ha seguito la strada intrapresa da Sky in generale, visto che la pay tv satellitare di Rupert Murdoch sta cercando (anche con un discreto successo) di diventare la tv più generalista tra quelle “fighette”. O la più fighetta tra quelle generaliste, scegliete voi.

Il successo vasto e consolidato di MasterChef, però, non è solo merito delle nuove strategie di Sky. Gran parte dell’exploit è da ascrivere ai giudici, ai volti del programma che ormai sono diventati star televisive a tutti gli effetti, con tanto di ospitate sanremesi o defilippiane. In principio, e per le prime quattro stagioni, furono Carlo Cracco, Bruno Barbieri e Joe Bastianich. Chef stellati i primi due, imprenditore nel settore della restorazione il terzo, il trio delle meraviglie culinarie ha ingaggiato una battaglia interna senza esclusione di colpi il cui premio era la consacrazione a star del piccolo schermo. Perché i ristoranti e l’alta cucina fanno guadagnare tanti soldini, ovviamente, ma vuoi mettere una serie interminabile di spot televisivi e di ospitate?

Tra una patatina reclamizzata come la nuova frontiera della nouvelle cuisine, una batteria di pentole professionali e un ingresso trionfale nello studio di Amici di Maria De Filippi, los tres caballeros dei fornelli sono riusciti a portare il processo di trasformazione degli chef in star televisive a un livello mai raggiunto prima. Eravamo abituati ai cuochi panzuti e “caserecci” della Clerici, non a tre dandy pronti a sbranare i malcapitati concorrenti anche per un po’ di prezzemolo sminuzzato male. Quattro stagioni così, tra cattiverio studiato a tavolino e presenzialismo esasperato, hanno dunque creato il MasterChef che conosciamo oggi.

Però, perché c’è quasi sempre un però, forse qualcosa si stava rompendo, nel meccanismo perfetto di MasterChef Italia. Sempre le stesse facce in commedia. Serviva un innesto genuino, credibile, fresco e possibilmente meno artefatto. Quinta edizione, quarto giudice: a far compagnia ai tre vanitosissimi giudici, ecco arrivare Antonino Cannavacciuolo, chef di Villa Crespi e già volto televisivo grazie a Cucine da incubo (in onda su Fox Life). Nonostante una certa dimestichezza col mezzo televisivo, Cannavacciuolo è l’antidivo per eccellenza. Fisicamente, innanzitutto, visto che non somiglia a una star di Hollywood come Carlo Cracco. E poi quelle sonore (e presumiamo dolorose) pacche sulle spalle, la dizione non proprio impeccabile (la “d” diventa “t” quasi sempre), l’invito a usare il cuore in cucina, oltre alla tecnica. È lui l’uomo di cui MasterChef aveva bisogno per tornare umano? Sì, senza dubbio alcuno. Antonino Cannavacciuolo è decisamente meno inflazionato dei suoi tre colleghi, si è visto relativamente poco in tv, è più spontaneo (e in realtà ci vuole poco, a essere più spontanei di Cracco, Barbieri e Bastianich).

Poi vabbè, magari anche lui ogni tanto esagera. Pare abbia detto di aver lavorato con Gualtiero Marchesi, ma il maestro dei maestri della cucina italiana ha smentito categoricamente, dicendo che Cannavacciuolo semplicemente lavorava a Capri in un posto in cui lui era solo consulente. Ma qualche castroneria la perdoniamo volentieri, all’orso buono delle cucine italiche. Non fosse altro perché a MasterChef lui è l’unico elemento genuino, o perlomeno quello meno artificiale, di una ricetta costruita con astuta perizia e che funziona, per carità, anche se forse manca un po’ di sale. Sui social, specchio del paese (ir)reale di cui MasterChef (e un po’ tutto quello che trasmette Sky) si nutre, Cannavacciuolo è il più amato. È diventato persino una sorta di icona gay, perché così aderente allo stereotipo del “bear”, l’orso grosso e peloso che rappresenta una delle categorie più di moda dell’universo omosessuale.

Per adesso va tutto bene, dunque. L’unico rischio (enorme, in realtà) è che anche Cannavacciuolo si faccia prendere la mano e si ubriachi alla stordente fonte della notorietà televisiva, degli spot purché siano, delle ospitate (è stato all’ultimo Sanremo, per esempio, e non è andata proprio benissimo). Cannavacciuolo non ha il physique di Cracco, la parlantina di Barbieri o la piacevole arroganza di Bastianich. E forse è un bene, perché MasterChef ha bisogno di lui per continuare ad avere un’aderenza (magari scritta a tavolino ma scritta benissimo) con la realtà.