Chi segue la telenovela che vede coinvolta Apple (spalleggiata da tutti i colossi dell’IT) e il governo Usa sul tema dello sblocco del sistema di protezione dei dati dell’iPhone rischia seriamente di scambiare la vicenda per una “semplice” battaglia sui diritti civili. In realtà, non è (solo) così. Riassumiamo brevemente la vicenda: l’Fbi vuole mettere le mani sui dati conservati nel telefono di uno degli attentatori di San Bernardino, ma non è in grado di superare il sistema di protezione dell’iPhone. Ha quindi chiesto a un giudice di intimare a Apple di realizzare un aggiornamento di iOS che permetta di forzare la protezione senza che entri in funzione il sistema che cancella tutti i dati dopo il decimo tentativo sbagliato nell’inserimento del Pin. Apple si è rifiutata di ottemperare all’ordine del giudice sostenendo che una simile azione creerebbe un “pericoloso precedente”. Certo, la mossa di Tim Cook potrebbe essere letta anche come una furbesca mossa di marketing per accattivarsi gli attivisti per il diritto alla privacy. Nello scontro tra l’azienda di Cupertino e la magistratura, però, c’è molto di più e la vicenda potrebbe essere l’occasione per affrontare, finalmente, alcuni nodi legati alla governance delle comunicazioni digitali.
Se il grande fratello è “normale”
Dopo le rivelazioni di Edward Snowden, l’opinione pubblica ha ben presente che i governi (non solo quello statunitense) possono abusare dei loro poteri in tema di intercettazioni per controllare l’attività, le opinioni, la vita privata dei suoi cittadini. L’opposizione alle velleità di controllo indiscriminato da parte delle autorità, però, stenta a radicarsi come una reale rivendicazione e ad assumere la dignità di un reale diritto civile. A frenare le rivendicazioni è la strategia del terrore, la stessa messa in campo con il Patriot Act e che ha convinto milioni di cittadini statunitensi a rinunciare alla riservatezza delle loro comunicazioni in nome della “sicurezza” promessa dalle agenzie governative. Il vero problema è che manca una regolamentazione a livello internazionale che stabilisca in maniera chiara quando e come si possono intercettare dati tramite Internet. Allo stato delle cose ognuno fa quello che vuole e a rimetterci sono i cittadini, sottoposti a una forma capillare di controllo e sorveglianza che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Lo scontro tra Apple e le agenzie governative Usa potrebbe essere l’occasione per affrontare la questione. Tra le pieghe della vicenda, però, si nascondono aspetti meno “etici” e, a dirla tutta, molto prosaici.
Tim Cook non si fida
La richiesta del giudice federale è semplice: sviluppare un aggiornamento di iOS che elimini il sistema di protezione dei dati e consenta all’Fbi di violare la password che protegge i dati sullo smartphone dell’attentatore di San Bernardino. La risposta di Tim Cook è altrettanto chiara: “Si creerebbe un pericoloso precedente”. Una risposta diplomatica, dietro la quale c’è un (grosso) non detto: Fbi, Nsa e soci hanno dimostrato in questi anni di essere assolutamente inaffidabili e incapaci di gestire in maniera trasparente i loro poteri. I vari leaks che hanno messo alla berlina i servizi segreti americani riportano frequenti casi di abusi e dimostrazioni di incompetenza che sconsigliano di mettere nelle loro mani uno strumento potenzialmente devastante. Ci sono gli agenti che hanno utilizzato gli strumenti delle agenzie per spiare la moglie o la fidanzata, gli investigatori hackerati da Anonymous, i sospetti di illegalità delle intercettazioni e una miriade di inciampi e figuracce collezionate dal 2001 a oggi. Insomma: Tim Cook non lo può dire, ma di offrire un passepartout a questa banda di cialtroni non ci pensa per niente. A peggiorare la situazione c’è il fatto che nel mondo della cosiddetta “sicurezza” non si muovono soltanto gli agenti in forza all’Fbi, ma anche una miriade di contractors, agenzie e società private che collaborano con il governo. Come ci ha insegnato la vicenda di Hacking Team, l’affidabilità di questi soggetti è pari a zero. Nulla di più probabile che un eventuale software sviluppato da Apple per aiutare l’Fbi finisca sul mercato nero nel giro di una manciata di minuti.
Una partita tutta politica
L’affaire Apple risente anche del clima elettorale. A indicarlo sono tanti piccoli elementi. Primo tra tutti il fatto che dal Senato (a maggioranza repubblicana) sia stata ipotizzato un progetto di legge che punirebbe la mancata ottemperanza all’ordine del giudice come reato penale. La Silicon Valley, da sempre, si attesta su posizioni liberal e Apple figura da sempre tra i sostenitori del Partito Democratico. La minaccia di mettere l’azienda di Tim Cook in una situazione più che spinosa suona come una minaccia in vista delle prossime elezioni presidenziali. Guarda caso a schierarsi contro Apple è il rivale di sempre Microsoft, in passato grande sponsor dei repubblicani ai tempi di George W. Bush. E la dimensione politica non sfugge nemmeno a Tim Cook, il quale si è dichiarato pronto a portare la questione avanti la Corte Suprema. Dopo la morte del giudice conservatore Scalia, infatti, Obama potrebbe riuscire a portare a casa la nomina di un nuovo giudice prima della scadenza del suo mandato, modificando la composizione del collegio che a questo punto avrebbe una maggioranza di giudici liberal. Certo, non è detto che questo significhi automaticamente che Apple l’abbia vinta, ma il peso di una sentenza favorevole a Cook sarebbe notevole e potrebbe obbligare il governo Usa a cambiare registro in tema di intercettazioni.