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La Bolivia dice no a Evo Morales (e al caudillismo)

Bolivia cambia, Evo cumple. La Bolivia cambia, Evo mantiene le promesse. Fu con questo alquanto baldanzoso slogan che, agli albori dell’anno 2016, Evo Morales Ayma, primo presidente d’estrazione indigena, da par suo condusse la battaglia del referendum attraverso quale chiedeva ai boliviani di concedergli, cambiando il dettato costituzionale, la possibilità di partecipare ad una quarta corsa presidenziale nel 2019. Ovvero: di poter continuare a guidare il paese, dopo dieci ininterrotti anni di governo, ‘almeno’ fino al 2025 (l’ ‘almeno’ è d’obbligo perché già due volte, in precedenza, Evo aveva fatto modificare la Costituzione per farsi rieleggere alla presidenza). E questo fu quel che in effetti accadde: la Bolivia – una Bolivia davvero cambiata, e cambiata in meglio, grazie alle promesse da Evo mantenute – da par suo l’ascoltò, rispondendogli con un ‘NO’ il cui peso politico andò ben oltre lo scarso tre per cento di vantaggio (51,3 contro 48,7) fatto infine registrare nelle urne al termine d’un interminabile conteggio….

Chissà. Forse proprio così, sottolineando l’apparente incongruenza tra i successi di Evo e gli esiti del voto di domenica scorsa, cominceranno, tra qualche decennio, le pagine di storia chiamate a raccontare il processo elettorale appena conclusosi in Bolivia. Ed in ogni caso certo è che, senza partire da questo paradosso, molto difficile sarebbe, oggi, comprendere a fondo le ragioni per le quali Evo ha perduto – e perduto ben più pesantemente di quanto indichino i numeri – un referendum da lui stesso convocato con piuttosto ovvie ambizioni plebiscitarie. Non c’è dubbio: nei dieci anni di presidenza Morales – o di co-presidenza Morales-García Linera, come molti preferiscono annotare, sottolineando il peso politico-strategico del vice-presidente Álvaro García Linera – la Bolivia ha fatto davvero passi da gigante. E questo non solo perché, favorita da una congiuntura economica mondiale straordinariamente favorevole, ha in questo lasso di tempo più che triplicato il suo prodotto interno lordo. Dai giorni della prima vittoria di Evo, nel novembre del 2005, la Bolivia ha, in realtà, fatto molto più che arricchirsi (o scuotersi di dosso, distribuendo più equamente la nuova ricchezza, una rilevante parte della sua atavica povertà): ha, innanzitutto, rotto le barriere di razzismo e di apartheid che avevano – tra una dittatura militare e l’altra – inesorabilmente inamidato la rivoluzione democratica del 1952. E grazie ad una politica economica che, sotto la patina d’una classica retorica anticapitalista ed antimperialista, s’è in realtà pragmaticamente fondata sul principio dei ‘conti a posto’, ha quindi evitato tutte (o quasi tutte) le tradizionali (e tanto comuni in America Latina) trappole del populismo. Come?

Le basi teoriche del socialismo boliviano, o ‘socialismo andino’, frutto per lo più della mente del vice-presidente Álvaro García Linera, sono piuttosto complesse e, a tratti, addirittura criptiche (al tema ho dedicato tempo fa una serie di post che si possono leggere qui, qui e qui). Ed in qualche modo combinano molti dei concetti ‘indigenisti’ a suo tempo elaborati da José Carlos Mariategui nei suoi ‘Sette saggi sulla realtà peruviana’, con le molto più recenti (e modeste) idee di ‘capitalismo diffuso’ propagate dal (anche lui peruviano) Hernando De Soto in ‘El otro sendero’. Ma per comodità possono, queste basi, essere riassunte in un semplice assioma. Se si vuole costruire il socialismo –  qualunque forma di socialismo – bisogna prima creare qualcosa che in Bolivia non è mai davvero esistito: il capitalismo. O, più esattamente: un capitalismo che, opportunamente regolato, sia capace di rispondere ai più elementari bisogni della gente. Perché, come lo stesso Evo ha recentissimamente sostenuto d’aver a suo tempo fatto invano notare al ‘comandante supremo’ Hugo Chávez: ‘Si no garantizas el alimento, a la mayoría no le importa mucho la ideología. Se la gente ha fame, l’ideologia non conta nulla.

E proprio questo è, in sostanza, quello che il governo di Evo – meritandosi anche i molto ‘neoliberisti’ elogi del Fmi – è riuscito a fare in dieci anni: ha ‘garantizado el alimento’ senza svuotare le casse pubbliche. Ha – almeno in parte – liberato la Bolivia dalla realtà d’una fame antica ed ha, grazie ad una economia in buona salute, creato le basi di una democrazia solida, un nuovo senso della cittadinanza., un nuovo ‘spirito repubblicano’. Più esattamente: ha creato – e qui sta il paradosso – le premesse della sua propria sconfitta, del molto sonoro ‘NO’ che, domenica scorsa, ha fatto da controcanto alle sue ‘semi-monarchiche’ ambizioni di rielezione nel 2019. Un ‘NO’ che è, in realtà, un secco ripudio del ‘lato oscuro’ del suo governo, del suo sempre più ovvio – come altro definirlo dopo tre consecutivi assalti alla Costituzione per garantire la propria rielezione? – desiderio di ‘eternizzarsi’ in sintonia con la peggior tradizione ‘caudillista’ dell’America Latina. Ovvero: d’una malattia i cui più comuni sintomi – l’autoritarismo, la corruzione, il clientelismo, il culto della personalità – sono in realtà sempre stati (pur senza gli eccessi ‘mistici’ del chavismo) una sorta di ambiguo ‘sottinteso’ della fino a ieri irresistibile ascesa dell’ ‘evismo’.

Avremo modo di tornare sul tema. Ma questo intanto vale la pena dire in estrema sintesi. Evo ha ‘creato’ la democrazia boliviana e, di questa democrazia, ha poi cercato d’appropriarsi. Domenica scorsa la democrazia boliviana ha sconfitto Evo. Ed stato, per la democrazia boliviana, un gran bel giorno.