Cultura

‘Bandierine al vento’, Evoè: ritratto di una famiglia apparentemente tranquilla

Famiglie, vi odio! focolari chiusi; porte sprangate; possessi gelosi della felicità”. (André Gide)

La famiglia è uno stato che riceve autorità dalla noia, dalle convenienze e dalla paura di morir soli in casa”. (Leo Longanesi)

Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa della famiglia”. (George Orwell)

Non è che se la passi molto bene l’istituzione della famiglia. Arrivano bordate e spinte da ogni parte, dall’interno e dall’esterno e sembra rimanere solida soltanto nella paura vanamente celata dell’alternativa nebulosa, nelle istituzioni, nella Chiesa o nelle barzellette d’annata. Difficile la sua difesa, ma difficile anche pensare il nostro mondo senza. Da lì nasce tutto, la vita, i ricordi, un nucleo sul quale contare, le radici, ma anche traumi da analisti, incubi, atteggiamenti, tic e ossessioni. “Né con te né senza di te” da Ovidio passando per Truffaut. A teatro i colpi sono ancora più pressanti perché lì si annida il progressismo spinto che tenta di spostare la società, spostarne i limiti, spostare le soglie, abbattere lo status quo, qualunque esso sia, cercare il nuovo, il diverso, provare a pensare nuove soluzioni per l’esistente. La famiglia a teatro è un concentrato di vigliaccherie, macchineria di repressioni e incomprensioni, quattro mura soffocanti tra il becero e il grottesco, sospesa tra l’opprimente e il parossismo.

Ne tratteggiano un profilo inquietante e per niente tranquillizzante gli Evoè Teatro con “Bandierine al vento” dell’enfant prodige della drammaturgia tedesca, il trentacinquenne Philipp Lohle, autore di quel “Gospodin” portato in scena recentemente per la regia di Barberio Corsetti con Claudio Santamaria. Un’allegra famiglia che pare prendere spunto dalla solitudine dei “Sette savi” di Fausto Melotti (al quale è intitolato il teatro dove siamo) da una parte, e dai colori del Campari di Fortunato Depero dall’altra, entrambi illustri abitanti di Rovereto, cittadina appesa alla memoria del Museo della Guerra come al contemporaneo Mart. Gli Evoè, al secondo testo impegnativo dopo “Tutto” di Rafel Spregelburd, sono qui macchie grottesche, un quadrilatero claustrofobico di padre-madre-figlia-figlio, come fossero scombinate figure di Keith Haring, nei cromatici che s’intersecano come comete, come gli abiti nel cumulo dei rifiuti negli stracci di Michelangelo Pistoletto. La bandiera al vento cambia direzione a seconda dell’onda, del pensiero della maggioranza, dove, appunto, tira la corrente, vira, si sposta verso il pensiero unico, soprattutto muta idea frequentemente per convenienza e calcolo.

Una famiglia piccolo borghese (Clara Setti, Silvio Barbiero, Marta Marchi ed Emanuele Cerra, il più esplosivo, ben oliati e bilanciati tra sarcasmo e amarezze, ironia e afflizioni) dove tutto l’affresco sembra funzionare ma scavando dietro il paravento dell’ipocrisia, grattando la scorza di quel candore, quella pulizia, quella precisione di amore e buoni sentimenti viene velocemente spazzata via. Un padre che per una questione di principio si fa licenziare, una madre che insoddisfatta del marito si trova l’amante, un figlio incompreso poeta che diventerà poliziotto repressivo e coercitivo, una figlia iscritta ad ingegneria che invece fa la sarta evadendo le tasse. Quella che era, o che voleva essere, una famiglia perfetta (ma ce ne sono di famiglie perfette?) si sfalda, si scioglie, si disintegra sotto il peso del tempo che passa che, come goccia cinese, invece che costruire stalattiti, mina ogni giorno di più e corrode e mangia e sciupa e scardina e dissolve. Tutto è sopra le righe immerso in una felicità posticcia che cela scheletri e non-detto, metafora di tutti gli pneumatici che affollano la scena, che infatti sono di plastica e vuoti al centro, rimbalzano e puzzano pure un po’.

Se l’invenzione iniziale del testo sullo scatto dei selfie da parte della famiglia pare riportarci ad una memoria condivisa di fotografie che diventano ricordo, aneddotica e tiricordiquellavoltache, scatti che vanno ad abbagliare la platea costruendo un passaggio naturale e osmotico tra il gruppo sul palco e ognuno seduto tra il pubblico, entrando a pieno diritto dentro il nostro album di famiglia, sbiadito e logorato, con gli abiti e il taglio di capelli demodè. L’escamotage della foto collettiva si spegne però collassando quelli che erano ricordi, che riportati nel presente, al tempo indicativo, perdono incisività.

E’ questa felicità sempre conclamata ed esposta come vessillo e scudo, le bandiere del titolo, che nasconde sentimenti falsati e franati, incrinature (non inclinazioni assecondate) in quella che a parole e sulla carta doveva essere un Paradiso terrestre (l’isola nel Pacifico al quale il marito e padre paragona il suo nucleo). Una famiglia costruita e vissuta come una ditta, una piccola fabbrica dove tra amore e doveri si saldano le radici e si solidificano le fondamenta. Sarebbe bello, e mortalmente noioso, se fosse così, senza imprevisti non c’è gioia, senza risoluzione dei problemi non c’è scatto verso il futuro, non c’è maturazione né maturità. Il padre prima licenziato per l’avvento di internet, perché il suo ruolo è stato decretato come obsoleto e superato dalle macchine, e che poi si aggira da mattina a sera perché non ha il coraggio di confessare a casa che ha perduto il lavoro, la moglie con l’amante che, una volta anche lei esodata si ritrova a lavorare in un bordello. “Chi non lavora non fa l’amore” diceva il bisbetico domato.

Non si parlano più tra pc, chitarra, studio, assenza di un terreno comune. Tutti ingannano tutti senza redenzione. Ormai la valanga è lanciata a folle velocità e non c’è modo di fermare il crash finale. Tutto verrà travolto. E’ un tutti contro tutti, metafora di un’Europa fintamente unita e solidale che adesso, dopo la sbornia di contrastare sui mercati gli Stati Uniti e l’euforia da moneta unica e voli low cost, si odia e mal sopporta decisioni prese da una sovranazione depotenziata o sanzioni e ricatti commerciali. Il vento cambierà. La bandierina è troppo leggera per reggere, per fare resistenza. Per questo è destinata ad essere spazzata via.

Visto al Teatro Melotti, Rovereto, il 18 febbraio 2016