“Finita la festa, gabbato lo santo”. Questo proverbio calza a pennello per l’accordo sul clima raggiunto a Parigi nel dicembre scorso, su cui è calato un silenzio di tomba. Tutti d’accordo a parole, ma nei fatti niente è cambiato: in Italia e in Europa, la politica ruota intorno al debito pubblico, non al debito verso la biosfera.
Il debito pubblico fa male ma non è mortale per la popolazione, mentre quello verso la biosfera lo è, perché crea uno squilibrio crescente tra il prelievo di risorse naturali e la capacita di rigenerazione della natura, distruggendo così le condizioni di sopravvivenza delle comunità. Il grido dell’America latina, nella crisi del debito degli anni 1970, “Pagar es morir, queremons vivir”, sintetizza bene il problema: il destino dei popoli del Sud è segnato in entrambi i casi, perché restituire il debito con gli interessi alle banche straniere significa trasformare economia, società e ambiente naturale in funzione dei paesi creditori, invece che della propria popolazione.
Come spiega Wendell Berry, lo scrittore-contadino statunitense nel suo La strada dell’ignoranza, accettare la distruzione delle proprie comunità significa perdere parte della nostra memoria, e dunque di noi stessi. L’imperativo è, oggi come ieri, “salvare le banche, non i profughi”, che muoiono annegati o di fame e di sete, o di freddo, o stazionano nella neve davanti ai fili spinati alzati in fretta e furia da molti paesi europei, senza che Bruxelles abbia aperto nessuna “procedura d’infrazione”. I boat people di oggi, come quelli del Vietnam nel secolo scorso, sono vittime delle guerre e della devastazione ambientale loro inflitte dagli interessi geopolitici dei paesi occidentali. E non si fermeranno, quali che siano le politiche di respingimento adottate nei loro confronti.