Avevano organizzato una rivolta in carcere per chiedere condizioni migliori e quindici anni dopo per loro è arrivata una condanna che potrebbe di nuovo farli finire dietro le sbarre.

È la storia di cinque ex detenuti dell’istituto penitenziario di Parma, che il 15 gennaio del 2000 fecero scoppiare una protesta per essere trasferiti in altri carceri e per ottenere migliori condizioni. Alle 11 di mattino, dopo l’ora d’aria, nella sezione Tre A al terzo piano di via Burla, alcuni detenuti assalirono un agente di polizia e lo presero in ostaggio, lo picchiarono e gli rubarono le chiavi delle celle. Quindi liberarono gli altri compagni e insieme a loro, 34 in tutto, si barricarono dentro, bloccando il cancello di ingresso della sezione con brandine e altri arredi. Una sommossa in piena regola, con i detenuti armati di pentole e bastoni, che continuò per sei ore.

Appena scattato l’allarme, davanti al carcere di massima sicurezza arrivarono poliziotti e carabinieri. Nelle lunghe ore di trattativa condotta dal procuratore Giovanni Panebianco e dal comandante di polizia penitenziaria Augusto Zaccariello, i detenuti ottennero di parlare con i loro famigliari al telefono, quindi cinque di loro ebbero la promessa del trasferimento in altri istituti penitenziari. Altre richieste avanzate furono quelle di vitto e trattamento migliore. Alla fine, verso le 17, gli agenti di una squadra antisommossa riuscirono ad aprire il cancello della sezione con un flessibile e a rientrare, senza incontrare alcuna resistenza.

In seguito tutti i detenuti scontarono le loro pene, come è raccontato su La Repubblica Parma, fino a quando, di nuovo liberi, Roberto Caruso, Matteo Clemente, Cosimo Faniello, Yassine Ben Mlik e Ruben Roberto Tudela Ruiz, considerati il nucleo forte della rivolta, si sono ritrovati alla sbarra per quella vicenda di tanti anni fa. Su di loro pendevano a vario titolo le accuse di rapina (per la sottrazione delle chiavi all’agente) e di sequestro di persona a scopo di estorsione. Il fascicolo, prima trasferito a Bologna per questioni di competenze territoriali, è tornato a Parma nel 2014, quando è cominciato il processo dibattimentale di fronte alla corte d’assise. Il pm Emanuela Podda aveva chiesto che il reato di sequestro fosse riqualificato in sequestro di persona semplice, che quindi sarebbe andato prescritto, mentre i legali difensori avevano chiesto l’assoluzione o in subordine l’estinzione dei reati per prescrizione. Il collegio di giudici presieduto da Pasquale Pantalone invece ha deciso di riqualificare il reato di sequestro di persona in “cattura di ostaggi” ai sensi della legge 718 del 26 novembre 1985, che ratificava la convenzione internazionale per prevenire, reprimere e punire qualunque atto di cattura di ostaggi quale manifestazione del terrorismo, e che prevede pene fino a trent’anni. Nel caso specifico però, è stato considerato come fatto di lieve entità, che è punito con le stesse pene del reato di sequestro di persona semplice.

Roberto Caruso e Matteo Clemente sono stati condannati a quattro anni e mezzo di reclusione, tutti gli altri a quattro anni. Il prossimo capitolo potrebbe essere il ricorso in appello, ma se la sentenza dovesse essere confermata anche in terzo grado, per loro si riapriranno le porte del carcere.

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