Chissà cos’avrebbe detto Umberto Eco del neologismo “petaloso”, nato e fluttuante sul web come hashtag per giorni, improvvisata storpiatura dentro un’aula di scuola diventata encomio. Lo sguardo dell’intellettuale di fama mondiale scomparso lo scorso 19 febbraio avrebbe planato con la solita arguzia sul tema del momento, senza sottrarsi ed evitare il confronto. Ne è la prova il libro postumo intitolato Pape Satàn Aleppe, primo volume edito dalla neonata Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, una lunga e densa raccolta di Bustine di Minerva che Eco ha pubblicato sul settimanale Espresso fin dal 1985. Il libro racchiude le puntate più significative, scelte personalmente dall’autore de Il Nome della Rosa, tra il 2000 e il 2015. La deviazione dantesca del titolo non inganni, perché siamo sempre dalle parti dei fiori, anzi dell’infiorescenza. Il gambo robusto e ben piantato del filosofo e fine osservatore, le gemme spontanee a tema che crescono sui rametti laterali: declinate nell’attenzione divertita e burlesca per il “complottismo”, per lo stupore ragionato nell’esplosione online della pornografia a scapito addirittura della religione, le “storielle” tanto amate e raccontate e qui riproposte, la serena accettazione dell’idea della morte. Così per chi se lo fosse perso, e per chi non ha raccolto tutti i numeri dell’Espresso negli ultimi quindici anni, ecco un utile riassunto di una penna assolutamente instancabile, a suo modo attenta con il puntiglio del polemista che invece di far saltare per aria il banco costruisce organicamente una sorta di punto finale, inappellabile, di quelli che andrebbero bene negli infiniti e polemici post di Facebook.
A tal proposito: che Eco avesse lo sguardo orientato verso il web e il trapasso tecnologico di forma, stile e linguaggio di smartphone et similia non è cosa nuova. Spulciando tra le Bustine, proprio quelle più recenti, c’è oltretutto una predisposizione all’arte dissacratoria, allo smontare con gusto e buon senso, l’accelerazione impressa. “Io non sono su Twitter, né su Facebook. La Costituzione me lo consente. Ma c’è ovviamente su Twitter un mio falso indirizzo così come pare ce ne sia uno falso di Casaleggio”, scrive l’indimenticabile professore dell’Alma Mater nella bustina intitolata Twitto dunque sono, datata 2013. Poi racconta di una signora paranoica che spediva enormi dossier a lui e al presidente della Repubblica per protestare contro qualcuno che la perseguitava, sostenendo inoltre che ogni settimana dalle colonne della rubrica dell’Espresso Eco le rispondesse sempre: “Dunque, qualunque cosa io scrivessi, lei la leggeva come riferita al suo problema personale. Non l’ho mai smentita perché sarebbe stato inutile, e la sua personalissima paranoia non avrebbe cambiato la situazione in Medio Oriente”. Da qui l’affondo sui 140 caratteri e la vacuità della comunicazione online: “Twitter è come il bar Sport di qualsiasi villaggio o periferia. Parla lo scemo del paese, il piccolo possidente che ritiene di essere perseguitato dal fisco, il medico condotto amareggiato perché non ha avuto la cattedra di anatomia comparata nella grande università, il passante che ha già preso molti grappini, il camionista che racconta di passeggiatrici favolose sul raccordo anulare, e (talora) chi esprime alcuni giudizi sensati”.
Poi è il turno di Facebook, bustina del 2014, quella in cui privacy diventa privatezza e i social network “sono uno strumento di sorveglianza dei pensieri e delle emozioni altrui, sono sì usati da vari poteri con funzioni di controllo, ma grazie al contributo entusiastico di chi vi partecipa”. L’autolesionismo per un’apparizione pubblica (il farsi vedere, il “ciao ciao dietro l’intervistato”) sembra quasi peggiore e più oltraggioso del classico scambio per un piatto di lenticchie. Lo spiega Eco riferendosi al concetto di “società liquida” di Bauman, superando il vetusto “postmoderno”, regalandoci alcuni ragionamenti recentissimi pubblicati non più di pochi mesi fa che iniziano con un fatto inoppugnabile, “la crisi dello Stato”: “Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni”.
“Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada di ciascuno ma antagonista, da cui guardarsi – continua – Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione nella quale, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle Bustine) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio)”.
E’ un Eco politico come forse non è mai stato, se non nel gesto nobile dell’abbandono della galassia Mondazzoli per riparare nella Nave di Teseo. Siamo nell’ “interregno liquido dell’indignazione”, spiega. “Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? Non lo sappiamo ancora e questo interregno durerà abbastanza a lungo. Questi movimenti sanno che cosa non vogliono ma non che cosa vogliono”. E conclude: “C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno”.