Il 19 agosto prossimo, il cileno Pablo Larraín compirà 40 anni: fino ad allora, rimarrà il più grande regista under 40 al mondo. In attesa di una doppietta da brividi, ovvero Neruda e Jackie (Kennedy), ad oggi ha firmato cinque film: il primo, Fuga, non è uscito nelle nostre sale; Tony Manero (2008) è un musical atipico sul regime Pinochet, una danza macabra tra John Travolta e follia omicida; Post Mortem (2010), con la macchina da presa per bisturi e lo stile che disseziona, è un’autopsia della democrazia (e di Salvador Allende); No – I giorni dell’arcobaleno (2013) ritorna alla “pubblicità progresso” per il referendum del 1988 in Cile. Il quinto è forse il suo film migliore, s’intitola Il Club (El Club) e si apre con dei versetti strappati alla Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona, e separò la luce dalle tenebre”.

il club

Quale luce, quali tenebre e, dunque, quali uomini? Quattro sacerdoti, tra cui il Padre Vidal interpretato dall’attore feticcio di Larraín, Alfredo Castro, che vivono in una casa alla fine del mondo: ognuno di loro deve espiare una colpa, laddove senza gli abiti talari indosso si parlerebbe di crimini, quali pedofilia e traffico di minori, dalle conseguenze penali. Qui no, ed è una differenza stridente, che grida vendetta a Dio. Dice il regista, “sono sempre stato tormentato dal destino di quei sacerdoti che vengono rimossi dai loro incarichi dalla Chiesa stessa, in circostanze sconosciute, e allontanati dall’opinione pubblica. Nessuno sa dove siano finiti, in qualche modo scomparsi. Questi sacerdoti che si sono persi non rientrano più nella sfera di controllo della Chiesa. Sono stati condotti in case di ritiro in totale silenzio. Dove sono quei sacerdoti? Come vivono? Chi sono? Cosa fanno?”. Vivono, forse, solo sopravvivono sotto le cure di una suora, che fa da supervisore: esistenza sedata e rigidamente controllata, routine e preghiera, regole esaustive e allontanamento dal mondo. Può durare?

Non può: arriva un quinto sacerdote, ma non è solo. Con lui compare tale Sandokan (Roberto Farías), ed è voce di uno che grida in un altro deserto, quello delle violenze subìte: “Penetrazione”, “eiaculazione”, “prepuzio”, il suo mantra è esplicito, fanciullesco, torturato tra significato e significante. Non sappiamo ai sacerdoti nella casa, ma a noi spettatori in sala viene la pelle d’oca: il refrain di Sandokan forza l’empatia, tortura le coscienze, perché ha la forza dolorosa del migliore cinema, ossia l’evocazione. A noi l’onere di immaginare quelle molestie, quegli stupri: Larraín non si accanisce, ma nemmeno allevia la sofferenza. La posizione morale è la nostra: non solo è scomoda, fa male.

No, non può durare: esplode un colpo di pistola, e arriva un altro sacerdote, il gesuita Padre García (Marcelo Alonso), chiamato a indagare e fare pulizia. “Questo sacerdote ha delle analogie con Papa Francesco, ma sia la Chiesa vecchia che quella nuova di Bergoglio condividono il terrore per i mass media: forse la Chiesa ha più paura della stampa che dell’inferno”, osserva Larraín, ma ne equivocheremmo la cifra poetico-stilistica a pensare a un cinema di esplicita e programmatica denuncia civile: “Non è un pamphlet, i miei film non hanno mai un obiettivo ideologico, viceversa, il cinema è sempre politico, ma per quel che è, non per quel che dice”. Se con “l’egemonia dell’alta definizione oggi tutti i film assomigliano alle riprese sportive”, Il Club impiega “obiettivi sovietici, usati anche da Tarkovskij, e filtri per cercare una trasfigurazione visiva”: l’epifania di un club che non è solo fuori dal mondo, ma un altro mondo che non conosce pietas, rinnega il dialogo, esclude virtù e conoscenza.

Da qui la predilezione di Larraín per i primi piani dei suoi sacerdoti: il campo-controcampo, ovvero l’interazione, non esiste; i volti sono davanti alla macchina da presa come allo specchio. Se Il caso Spotlight di Tom McCarthy ripercorrendo l’indagine del Globe sui casi di pedofilia nella Chiesa di Boston crede ancora nella giustizia e nella (di)mostrazione dei fatti, Larraín sospende la pena, ma non il giudizio morale: che succede quando è l’uomo a spegnere la luce? La risposta è in sala: non perdetela, El Club è un capolavoro.

Da Il Fatto Quotidiano del 25/02/2016

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