Poi c’è Don’s Plum, per diversi anni rimasto invisibile perché Leo e Tobey Maguire si vergognavano di mostrarlo. Una querelle che a confronto Ultimo tango a Parigi è roba per signorine. Infine l’arrivo di Martin Scorsese che coincide con la maturità, artistica e commerciale: Gangs of New York, lo splendido Howard Hughes in The Aviator che piscia nelle bottiglie di latte, poi The Departed, e ancora un po’ sottotraccia Shutter Island e infine il lupo, anzi la faina, la bestia e la belva di Wall Strett, Jordan Belfort. Per fare un bel film ci vuole tempo e pazienza, pare gli abbia detto zio Marty, ma soprattutto che “il cinema è una forma d’arte al pari di scrittura e pittura”. Che Prova a prendermi sia un lavoro tutto cesellato su questa ambiguità dicapresca (o dicapriana?) di sembrare giovane e allo stesso tempo farsi credere continuamente un po’ più vecchio o è una trovata di Spielberg, o è un dato di fatto che Leo non si scrolla di dosso per anni.
Ancora in Inception gli tocca fluttuare come un Neo qualsiasi. In J. Edgar si trasforma in mostro frankensteiniano per Eastwood finendo mascherato come un freak di Browning. Leo è invece straordinario in Revolutionary Road in un ruolo un po’ da farabutto provinciale e volgare alla Accorsi in L’amore ritrovato. È cromaticamente dandy in un gioiellino come Il grande Gatsby di Luhrmann. Solo che l’eterno adolescente, fisicamente parlando, ha da sempre un debole: è uno sciupafemmine incallito. Le donne lui, il lolito della Hollywood anni duemila, le perde dalle tasche, le lascia al ristorante con il conto da pagare, le molla sull’altare quando è tutto pronto per le nozze. La trafila delle Rihanna, Dakota Johnson, Kelly Rohrbach, Blake Lively, Toni Garrn, Gisele Bundchen, Virgine Ledoyen, Eva Herzigova, Naomi Campbell, o delle primissime Kristen Zang e Amber Valletta, sembrano un semplice cambio d’abito tra una scena e l’altra di un film.