“Fiato alle trombe, Turchetti!”
Per inquadrare la misura del successo della trasmissione condotta da Mike Bongiorno basta un rapido sguardo ai numeri. Le puntate del Rischiatutto erano seguite in media da 20 milioni di telespettatori, un risultato stratosferico per il secondo canale Rai. La punta massima della trasmissione, in termini di ascolti, fu raggiunta nell’ultima puntata dell’edizione del 1972. Era il 10 giugno. Allora circa 32 milioni di italiani rimasero incollati al televisore a seguire le gesta dei tre finalisti: Massimo Inardi, Andrea Fabbricatore e Marilena Buttafarro.
Mike, maestro “collaterale” d’italiano
In tanti, ipnotizzati dal piccolo schermo, hanno imparato dal maestro Manzi che non è mai troppo tardi. Anche lui, il Mike nazionale, ha portato però acqua al mulino dell’apprendimento dell’italiano. È stato Umberto Eco ad affrontare per primo il profilo comunicativo, fra il surreale e l’imbarazzante, di un fenomeno che avrebbe poi attirato l’attenzione di generazioni di studiosi e addetti ai lavori: semiologi e massmediologi, sociologi e linguisti. La sua allegria, di là dall’iniziale materializzazione del pressante desiderio di svago di un paese segnato dalla guerra, è stata soprattutto emblema di uno spettacolo che non può interrompersi qualunque cosa avvenga.
L’evergreen Michele Bongiorno, decennio dopo decennio, ne è stato il più cinico, straordinario interprete: “Eccola qua” dirà imperturbabile – era La ruota della fortuna – mentre una concorrente, accusando un mancamento, si accasciava a terra. La poverina si ripeterà una seconda e poi una terza volta e lui, sempre come nulla fosse: “Sta per svenire un’altra volta”; “Un momento sta svenendo di nuovo”. Nell’allegria di Mike, che ha recitato da Bongiorno fino all’ultimo, c’era per intero il senso di un italiano picaresco e un po’ briccone, impertinente e farsesco, etichettato in tanti modi: deficitario, irriflesso, povero, informale, standard… Era in realtà, l’italiano di Mike Bongiorno, non molto diverso da un “parlato semplice” assai migliore dell’“urlato complice” di tanta becera tv del terzo millennio. Gli perdoniamo così volentieri tutti gli strafalcioni (“Era ora che se ne vada a casa!”), le gaffe leggendarie, il machismo e i doppi sensi, gli impareggiabili slogan involontari di cui è stato campione.
Un mondo di gaffe
“Peccato, signora Longari, peccato”. Quanti giovani, che seguivano Rischiatutto, l’avranno detto negli anni Settanta per ironizzare su un insuccesso scolastico altrui. E quanto si era riso nel 1958, quando, di fronte a una concorrente che aveva avuto la stravagante idea di portare in trasmissione un gatto di pezza collerico, Mike pensò si trattasse del “nome di una nuova razza di felini”; quando pronunciò Pioics e Paolovì i nomi dei due papi Pio X e Paolo VI; quando, a una concorrente che gli aveva detto di lavorare in una legatoria, rispose quasi con candore: “E cosa lega?”; quando fece diventare una licenziosa bernarda l’innocente berlanda del testo consegnatogli dagli autori, correggendosi un attimo dopo l’esplosione d’ilarità generale: “Allora, attenzione donne, qual è il titolo di questa canzone? La filanda, La belinda, La bernarda? No, La berlanda, La berlanda”.
“Guarda che più si è ignoranti meglio si funziona, eh sai, te lo dico io. Io per esempio sono ignorante, che son qua da quarant’anni”, disse una volta. Ignorante? Forse. Ma di una geniale ignoranza che se ne infischiava degli svantaggi culturali, rimettendosi al giudizio del suo pubblico. Si sarebbe volentieri appropriato, il principe dei gaffeurs, di quest’affermazione di Sant’Agostino: “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi”. Chissà, però, come sarebbe uscita dalla sua bocca.
di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani