L’immancabile articolessa domenicale di Eugenio Scalfari su Repubblica, parte dall’approfondimento delle dinamiche della democrazia contemporanea del secolo scorso. Secondo il fondatore di Repubblica, oggi avremmo una maggiore diversità di opinioni nel Parlamento attuale che in quello del secolo scorso, occupato all’epoca dal blocco del centro democristiano affiancato dalle ali più radicali della destra missina e della sinistra comunista.

Lo scenario politico che Scalfari racconta sembra piuttosto lontano dalla realtà attuale. Se c’è un’epoca dove i partiti hanno perso la loro diversità e identità ideologica, è proprio quella contemporanea. Tutte le formazioni politiche in Parlamento rappresentano al meglio il conformismo imperante del vincolo esterno sovranazionale. Nessuna di loro osa mettere in discussione i dettami dell’agenda della globalizzazione e delle sue rappresentanze europee. Può darsi che questo sia un dato positivo per il nostro, ma di certo l’attuale contesa politica è ben lungi dall’offrire una diversità di qualche tipo.

I partiti di oggi sono sostanzialmente omologhi gli uni agli altri, hanno perso la loro capacità di interpretare i bisogni e le istanze della società civile, e si propongono di rispettare il quadro guida delle regole europee che indirizza la vita politica ed economica degli stati membri.

Fino a qui non ci sarebbe nessun elemento di novità nella visione europeistica del sogno spinelliano di Scalfari – da tempo uno dei più ferventi sostenitori dell’Europa federata – se non per il suggerimento che viene rivolto caldamente a Renzi, considerato non più un discolo irrequieto pronto ad alzare impunemente la voce contro la governance europea, ma un politico più maturo e assennato.

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Leggendo tra le righe il messaggio è abbastanza chiaro: se il rottamatore vorrà restare a Palazzo Chigi non avrà altro da fare che rispettare le direttive guida che la governance europea a trazione tedesca gli assegna. Niente deficit sopra il 3%, realizzare gli avanzi primari sul debito, e praticare in fretta dei robusti tagli alla spesa pubblica che vengono domandati a gran voce sia da Bruxelles sia dai portavoce dell’austerità in patria. Di qui il richiamo alle responsabilità istituzionali fatto in Senato da Mario Monti a Renzi che ha accusato il premier di mettere a dura prova la stabilità dell’Europa con le sue dichiarazioni incendiarie e provocatorie, e la ramanzina dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli che da par suo rispolvera la narrazione generazionale del debito che grava sulle spalle dei figli.

Si chiede in sintesi più austerità, più tagli alla spesa pubblica per salvare le future generazioni. Prima di proseguire è utile ricordare che le soluzioni proposte dai mentori dell’austerità, generano esattamente gli effetti contrari. L’austerità è il debito. Sono state proprio le politiche montiane nel 2011-2012 che hanno portato il debito pubblico al 123%; il livello più alto dal 1970.

Le teorie della scuola neoclassica in economia, sono le uniche che piacciono a Bruxelles e soprattutto a Berlino, anche se i risultati ottenuti sono ben lontani dalle premesse iniziali. Renzi fino ad ora è stato un ottimo allievo di questa scuola e ha recitato impeccabilmente il compito che gli è stato assegnato all’inizio del suo mandato; nel giro di un biennio ha riformato l’art.18 dello Statuto del Lavoro, aumentando la facilità di licenziamento degli imprenditori nei confronti dei dipendenti subordinati; ha permesso l’approvazione di una riforma costituzionale che se supererà l’esame del referendum ad ottobre, stravolgerà completamente il rapporto Stato – enti locali e assegnerà alla Camera un ruolo di primazia rispetto al nuovo Senato; ha tenuto il rapporto deficit/Pil al di sotto del 3% e ha applicato diligentemente la normativa europea bancaria che prevede la partecipazione degli obbligazionisti e dei correntisti alle perdite degli istituti bancari.

Tutto questo ha permesso al premier di ricevere un sostegno senza precedenti in patria sia dagli ambienti di Confindustria e dal mainstream mediatico, sia dalla stampa estera e dalla governance europea. Ora l’idillio sembra finito, il feeling che si era instaurato tra Palazzo Chigi e la Commissione Europea sembra essere venuto meno. Renzi d’un tratto è divenuto d’intralcio, un interlocutore non più credibile per Bruxelles, mentre piovono editoriali di bocciatura dalla stampa anglosassone come il Financial Times che stronca l’atteggiamento irresponsabile del rottamatore. Renzi è stato una sorta di esperimento politico, una creatura pensata per realizzare le riforme strutturali che nessuno degli altri politici in Parlamento poteva mettere a segno. Troppo screditata presso l’opinione pubblica la classe dirigente del Pd e troppo ostile il centrodestra berlusconiano.

Da questo vuoto politico è nata l’esigenza degli ambienti sovranazionali di riempirlo con un personaggio giovane, ambizioso e soprattutto in grado di raccogliere consensi trasversali nell’elettorato moderato un tempo più vicino a Berlusconi. L’operazione è riuscita perfettamente, ma ora da Bruxelles sembrano che non vedano l’ora di sbarazzarsi del premier. Renzi ha compreso certamente che di questo passo non avrà nessun futuro politico. Continuare sul cammino dell’austerity assottiglierebbe ancora di più il suo consenso presso l’opinione pubblica, impaziente di vedere realizzate le sue promesse in materia di tagli fiscali.

Dall’altra parte invece se l’inquilino di Palazzo Chigi si decidesse a proseguire sulle politiche dell’austerità, le speranze di un secondo mandato andrebbero definitivamente in fumo. Proprio ieri Renzi ha fatto sapere che ha intenzione di diminuire il carico fiscale, con o senza il consenso di Bruxelles. Il guanto di sfida è stato lanciato, e ora resta da vedere se la macchina che si è messa in moto nel 2011 per disarcionare Berlusconi avrà la forza di spodestare anche Renzi. Dunque conviene tifare Renzi per impedire un epilogo ancora peggiore di quello di cinque anni fa? Se ci si trova a porsi questa domanda, è segno che la partita per l’Italia è già persa.

 

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