Anche questa volta il pericolo è stato scongiurato, ma solo grazie a un tribunale (e nel silenzio dei media). Infatti il Consiglio di Stato ha, con dovizia di argomentazioni, respinto il ricorso che l’esecutivo stesso aveva presentato contro la sentenza del Tar del Lazio che aveva a sua volta respinto l’assimilazione delle pensioni di invalidità e le indennità di accompagnamento alla stregua di redditi veri e propri, da inserire nel nuovo Isee, il famigerato Indicatore della situazione economica equivalente.
Introdotto con grande enfasi come uno strumento di meritocrazia (“Grazie alla riforma oggi le famiglie più bisognose accedono più facilmente alle prestazioni sociali”, recita uno slogan del governo), in realtà il nuovo Isee si è trasformato in una tagliola di diritti, potenzialmente capace di gettare sulle soglia di povertà migliaia di famiglie, alla faccia del sostegno alle più bisognose, come quelle dei disabili, appunto (ma anche studenti percettori di borse di studio, ad esempio). Come? Semplice. Calcolando le prestazioni assistenziali al pari di altri redditi, si ottiene un effetto cumulativo che rischia di produrre (visto che l’asticella dell’esclusione viene tenuta su redditi bassissimi), il paradosso di escludere le persone da quella stessa prestazione, oppure da altre, come ad esempio una casa popolare, perché considerato più “ricco”.
Facciamo un esempio: un disabile che percepisce l’indennità di invalidità ma vive con un figlio che ha un lavoro vede il suo reddito sommato a quello di suo figlio, e magari sommato all’unica casa di proprietà, con il risultato – magari – di trovarsi a non poter più beneficiare del suo, peraltro magro, assegno. Con che dignità può vivere un disabile senza un sostegno che sia suo, a cui ne ha diritto in quanto persona? E come addossare sui parenti, già spesso aggravati, anche l’onere di pagare una persona o una casa di cura, quando magari in casa c’è un solo stipendio? Per questo i giudici hanno fatto appello all’art. 3 della Costituzione, quello che assegna pari dignità sociale a tutti i cittadini, e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Parole al vento per il governo, che non pago del rifiuto del Tar ha impugnato la sentenza e si è rivolto, perdendo, al Consiglio di Stato, che ha cancellato una riforma strisciante fatta in teoria in nome nel merito, in pratica in nome di tagli e razionalizzazioni che finiscono per colpire i più deboli. Con la stessa modalità, d’altronde, il governo aveva cercato poco tempo fa, di restringere/abolire la pensione di reversibilità a un consistente numero di vedovi e vedove. Il trucco è sempre lo stesso: inserire l’assegno di reversibilità nell’Isee, in modo da farlo saltare laddove ci siano altri redditi – ad esempio un figlio con un lavoro – e magari la solita casa di proprietà (l’Italia è il paese dei proprietari), rilevante ai fini Isee. Per fortuna qui il governo ha fatto marcia indietro senza necessità di un Tribunale, ma il tentativo è veramente poco rassicurante perché in tutti questi casi si sono cambiate le regole del gioco durante il gioco stesso (basti pensare a una donna che ha scelto di non lavorare per dedicarsi alla famiglia, contando sull’assegno del marito).
Si tratta dunque di scelte ingiuste, che suscitano rabbia perché fatte in nome della giustizia. E perché, appunto, l’asticella del reddito sopra il quale si perdono i diritti è talmente bassa che probabilmente molti parlamentari non riuscirebbero a viverci neanche un mese, altro che anno. È questo che indigna, il due pesi e le due misure, l’incapacità del governo di mettersi nei panni di chi subisce le sue scelte, le riforme fatte a casaccio, senza monitorare attentamente le conseguenze. Per fortuna che ci sono ancora i Tribunali, luoghi dove si ottiene giustizia. Ma sempre con fatica e ansia, per colpa di una politica che non tutela come dice ma fa di tutto per toglierti protezioni che dovrebbero essere inalienabili.