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Sapete qual è la molla principale che spinge la squadra reporter del Boston Globe a darci dentro nell’inchiesta sui preti pedofili? Dare un gigantesco buco ai rivali del Phoenix, conquistare una meritata fama, dimostrare che noi siamo più bravi di voi, godere come ricci nell’immaginare le loro facce, la loro frustrazione, la rabbia del loro editore. E poi, naturalmente, fargliela pagare a quel sepolcro imbiancato del cardinale Bernard Francis Law, che ha tollerato e coperto per anni l’indicibile vergogna.

Per chi fa sul serio questo mestiere, smascherare le colpe di un qualsiasi potente che si sente onnipotente, gettarlo dall’altare nella polvere è una soddisfazione che non ha prezzo, tanto che alcuni (e so quel che dico) lo farebbero gratis.

Il caso Spotlight è un bel film che ha meritato l’Oscar anche per la sua cinica sincerità, perché attraverso la cruda e nuda realtà dei fatti dimostra come le forze primordiali della natura umana – ambizione sfrenata, lotta per prevalere, spirito di vendetta – siano il propellente più adatto per vincere un Pulitzer. Certo, grazie a quell’inchiesta giornalistica centinaia di vittime stuprate e umiliate, bambini a cui è stato strappato il cuore, hanno potuto ricevere un tardivo risarcimento materiale e soprattutto morale, ma non giriamoci intorno. Quando i cronisti del Globe li vanno a cercare e prendono nota degli stupri e delle molestie, quando mettono finalmente le mani sui documenti che inchiodano la diocesi, non si sentono affatto i crociati del bene ma corrono, bestemmiano e si dannano l’anima perché i bastardi del Phoenix non arrivino prima.

Chi fa questo mestiere conosce le notti in bianco nel timore che qualcuno possa rubarti lo scoop già in pagina, gli sguardi assassini scambiati coi cosiddetti colleghi, le domande carogne per indovinare se hanno messo le manacce sulla pepita d’oro. Fanno sorridere le teorie complottiste fiorite sul direttore ebreo del Globe e sulla cospirazione ordita per colpire la chiesa cattolica e i suoi valori (!).

Fesserie, poiché l’ebreo Martin Baron (oggi direttore esecutivo del Washington Post) si reca in visita di cortesia dal cardinale Law, ma quando costui che si sente intoccabile, con melliflua arroganza gli dona una copia del Catechismo, studia ragazzo e poi ne riparliamo, lo sguardo del direttore si fa implacabile. Nella visione consolatoria dei tanti pompieri dattilografi diuturnamente impegnati a spiegarci la rava e la fava, l’alta missione del giornalismo consiste nello smontare le notizie che turbano l’ordine costituito e la ragion di stato.

A loro segnaliamo un altro film: The Eichmann Show, trasmesso dalla Bbc e apparso nelle sale italiane per pochi giorni a gennaio, che racconta il dietro le quinte delle riprese televisive del processo di Gerusalemme al criminale nazista catturato nel 1961 dal Mossad in Argentina.

Mentre il regista Leo Hurwitz indugia con le telecamere sull’imputato incarnazione del male assoluto, come in un rito espiatorio, il produttore Milton Fruchtman (anch’egli ebreo) insiste per la spettacolarizzazione del processo, e nulla vuole tralasciare delle testimonianze sconvolgenti dei sopravvissuti all’Olocausto, immagini usate cinicamente e in nome dell’audience.

Pur nella tragicità dell’evento, la sua morale è semplice: se nessuno parla di noi e il pubblico preferisce guardare Gagarin nello spazio, avremo solo buttato i nostri soldi. È uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.

Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2016

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