Sta capitando, chi l’avrebbe mai detto, che il cartone animato, proprio lui, stia scavando nella categoria della complessità. Prima Inside Out, che rappresenta la piccola protagonista come abitata da pulsioni diverse che tirano ognuna per il proprio verso. Il “messaggio” implicito è che l’Io, lungi dall’essere guidato da un auriga che domina i cavalli dell’anima (come credeva il povero Platone) è mosso da una sorta di parlamentino interiore a maggioranze variabili, che altro che Verdini. Questo è quanto hanno visto nel film, e quindi intravisto in sé, senza battere ciglio, i ragazzini e le ragazzine che si affollavano in platea. Sembrava che gli paresse del tutto naturale essere plurimi anziché uni.
Poi c’è Zootropolis, dove gli animali convivono, sì, fra ex carnivori, erbivori, giganti e piccini, ma anche con incolmabili diversità (tant’è che i treni hanno diversi varchi d’accesso, grande, medio, minuscolo, differenziati in funzione della taglia dei cittadini, dall’elefante fino al leone e al roditore). Insomma, si sta insieme fra diversissimi, ma cercando di non pestarsi i piedi, a volte non senza fatica. E anche qui, il nipotino che ci aveva portato al cinema e che nella sua prima elementare pratica, come se niente fosse, il multiculturalismo e la multi etnicità, sembrava perfettamente a suo agio, come del resto i suoi coetanei. Quella che per gli adulti era metafora della complessità sociale (entro foschi orizzonti di conflitto e incomunicabilità) ai piccoli appariva come realtà chiara e corrente.
A ben pensarci il tema della complessità e della diversità lo avevamo da poco trovato protagonista anche in Master of None, (una serie con persone vere, non un cartoon) il prodotto Netflix in cui un immigrato indiano di seconda generazione persegue l’eterna impresa dell’adeguamento al mondo circostante. Compito complessissimo, visto che gli stessi nativi americani (ma anche francesi, italiani eccetera) lungi dal dare una mano sono i primi a non raccapezzarsi con i propri statuti culturali e di comportamento. Insomma, quella dei cartoon, e non solo, hollywoodiani sembrerebbe quasi una campagna ideologica, una valanga di cinema pedagogico. Magari è solo un caso, ma viene addirittura il sospetto che Hollywood, rispolverato il tradizionale appoggio ai democratici e a costo di far rivoltare nella tomba John Wayne, sia mobilitata a spiegare agli americani che il mondo non è quello sempliciotto affabulato da Donald Trump, che alla complessità oppone reticolati fisici e mentali. E forse quella del cinema non è banale filantropia, ma solo il tentativo di non fare come quei gonzi degli struzzi, che, dice la leggenda, cacciano la testa nella sabbia per sfuggire alla realtà. Ma così espongono le terga a tutte le insidie del complesso.