Da Alejandro Aravena, 48 anni, cileno, vincitore del premio Pritzker per l’architettura, curatore della prossima Biennale di Architettura di Venezia “Reporting from the front”, gli architetti hanno qualcosa da imparare. Innanzitutto ha una sua visione dell’architettura ed ha il merito di riportare l’attenzione sul ruolo sociale dell’architetto e sulle reali emergenze dei Paesi: una funzione tanto ovvia quanto dimenticata, che suona quasi rivoluzionaria, se si pensa al protagonismo incontrastato delle “archistar” degli ultimi decenni.
La esercita attraverso la pratica dell’architettura con il lavoro svolto dal suo studio Elemental, partecipando a processi di rigenerazione urbana (Parque Periurbano de Calama); realizzando case popolari (viviendas “incrementales”) ispirate al criterio di creare armonia e comunità con risorse minime; progettando la ricostruzione della città cilena Constitución colpita dal terremoto nel 2010.
Gli architetti pongono problemi che interessano solo altri architetti, dice Aravena; l’architetto deve mettersi al servizio della società, ruolo a cui gli architetti italiani hanno rinunciato da decenni, diventando una categoria professionale che incide in modo irrilevante nella società (del resto, una categoria che non ha neppure la forza di liberarsi di istituzioni inutili e dannose come il Consiglio Nazionale degli Architetti e gli Ordini professionali, è condannata all’impotenza politica).
Alejandro Aravena, con la schietta chiarezza che caratterizza la sua dialettica afferma: “Per far vedere che noi architetti siamo importanti, abbiamo inventato la strategia dello shock: per più di un decennio gli architetti hanno dato risposte complicate a domande semplici, quando la strategia invece, avrebbe dovuto essere quella contraria, rispondere in modo semplice a domande complesse”. Con questa incontestabile verità, ridimensiona (o riporta alla sua reale rilevanza) certa architettura spettacolare e cafona e il fallimentare ideologismo dell’Accademia che, come nel caso italiano, privilegiando la teoria, la letterarietà autoreferenziale e l’astratto virtuosismo di stile, l’elzeviro colto senza alcun aggancio con il Paese reale, ha segnato l’inizio della fine dell’architettura italiana.
Oltre alle contraddizioni di un architetto che dialoga con i poteri, che accetta prestigiosi premi internazionali e la direzione della Biennale di Architettura di Venezia con l’inevitabile presenza delle mai rottamate “archistar”, Aravena – che è l’esatto contrario di chi si nasconde dietro opache velleità concettuali, che si racconta fuori dalle parrocchie intellettuali, con una infanzia vissuta solo con il necessario – rappresenta tutto il pragmatismo e la concretezza che sono propri di chi ha avuto poco ed ha imparato ad avere bisogno di poco: il “poco” “che ti obbliga a risolvere i problemi seguendo la strada più diretta, non necessariamente quella più povera”.
Forse, dopo la dimenticabile Biennale di Rem Koolhas e dopo il tripudio celebrativo delle archistar e di quanti a questa qualifica aspirano, nella cui architettura forma (e formalismo) prevalgono sul programma, è il momento di voltare pagina e di riferirsi a opere che, per caratteri etici, estetici, spaziali, sono rappresentative, oggi, del rapporto dell’uomo con il proprio tempo.