“Lei è del Fatto Quotidiano? Lo sa vero che non dirò neppure una parole di politica?”
Era il 2010, il Fatto Quotidiano era uscito solo da qualche mese e io ero a Udine per un servizio.
L’amico Loris Tramontin di Azalea Promotion mi disse che l’indomani ci sarebbe stato il concerto del maestro Morricone e che, forse, avrebbe potuto aiutarmi ad incontrarlo. Chiamai il direttore Padellaro e gli proposi l’intervista. Mi disse subito: “Se ci riesci, falla!”.
La sera prima cercai di prepararmi all’incontro: lessi tutte le interviste rilasciate dal maestro, anche su testate straniere. Il mio obiettivo era di riuscire a formulare domande mai fatte: impossibile. Su Ennio Morricone era stato scritto tutto. Allora presi il mio iPod, sempre con me, e cominciai a riascoltare le sue musiche. Del mio passato poco glorioso di strimpellatrice ricordo le parole del mio insegnante: la musica non va solo ascoltata, ma anche immaginata e vista. Così è per Metti una sera a cena dove il crescendo dell’intensità musicale si accompagna alla scena dell’atmosfera di attesa di incontro di una coppia. Oppure ancora per Invito allo sport. Per me la musica di Ennio Morricone è visione. E’ l’immagine esatta di una scena che hai vissuto o che sta scorrendo nella mente.
Dalle porte dell’ascensore uscirono il maestro e sua moglie Maria: ad attenderli nella hall dell’albergo il manager e altri giornalisti. La coppia mi salutò, cordialmente, come sanno fare i “signori”, mai utilizzando il “tu”, tanto meno sorridendo inutilmente.
Avrei voluto immortalare quelle due persone, piccole e minute. Avrei voluto farmi scattare una fotografia – ancora non eravamo stati invasi dai selfie – insieme a Morricone, ma il manager precedette tutto avvisandomi: “L’intervista dovrà durare 15 minuti”.
Ci sedemmo all’aperto su sedie in ferro battuto. Il maestro sembrava poco interessato, due persone rimasero in piedi al nostro fianco e in quel momento capii che i 15 minuti sarebbero stati tali senza alcuna deroga. Tolsi dalla borsa il mio registratore e lo accesi mentre aprivo il quaderno degli appunti. Non stavo comoda su quella sedia dove mi ero praticamente appoggiata, come quando si ha la sensazione di avere poco, pochissimo tempo.
“Lei è del Fatto Quotidiano? Lo sa vero che non dirò neppure una parola di politica?” esordì. “Lo immaginavo, ma siccome ho la possibilità di parlare con lei facciamo che io accendo il microfono e parliamo di ciò che vuole”, risposi, premettendo anche che non ero una critica musicale, non mi occupavo di musica ma, al tempo, scrivevo di lavoro. “Senza lavoro le persone perdono la propria identità”, mi disse. “Sto pensando di scrivere un’opera sul lavoro” mi confidò.
“E come la immaginerebbe l’opera sul lavoro, maestro?”
“Come un vortice. Una spirale che dal basso sale verso l’alto”.
Senza accorgermene cominciai a sentirmi più comoda su quella sedia.
“Maestro, le è mai capitato di scrivere una colonna sonora per un brutto film?”.
“Sì, diverse volte. Non le dirò mai nessun titolo, ma sappia che un brutto film è come un bel vestito per una donna poco avvenente. Una bella colonna sonora non lo renderà più piacente”.
La conversazione proseguì, i 15 minuti pure. A ricordarlo fu la voce del manager, teutonico nel suo avviso.
“Grazie maestro”.
“Prego”, mi rispose.
Stavo riponendo i miei attrezzi del mestiere nella borsa e lui mi sorprese.
“Immagino le farebbe piacere se dicessi qualcosa che riguarda la politica italiana”.
“Magari”.
“C’è molta confusione nel nostro paese. In una recente occasione pubblica ho incontrato Beppe Grillo, che ho sempre apprezzato come comico” .
“C’è qualcosa che vorrebbe dirgli?”.
“Di dire le stesse cose ma senza urlare” .