Delle infiltrazioni della criminalità organizzata in Toscana si sa poco o niente. Oggi però un’operazione della Dia di Firenze mostra come la ‘ndrangheta abbia cominciato a fare affari anche in questa regione e come abbia puntato gli occhi e non solo su locali anche molto noti nel capoluogo toscano. Sei le persone iscritte nel registro degli indagati. Per uno di questi, un imprenditore calabrese di 80 anni, sono stati disposti gli arresti domiciliari.
Gli investigatori hanno sequestrato beni a Firenze per 3 milioni di euro a un imprenditore calabrese ritenuto vicino alla ‘ndrangheta. L’operazione “Becco d’oca” (dal nome di uno dei locali sequestrati), coordinata dal procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e dal sostituto Ettore Greco Squillace (ora capo a Livorno), ha permesso di svelare l’esistenza di un flusso di denaro verso la Calabria in favore del reggente della ‘ndrina Giglio di Strongoli (Crotone).
Con il provvedimento, eseguito nelle province di Crotone, Firenze e Prato, sono stati messi i sigilli a nove società, tre bar-pasticcerie, un ristorante-pizzeria, sette appartamenti, cinque mezzi tra auto e moto. Nel mirino dei detective anche 42 rapporti bancari, tra conti correnti, libretti di deposito e dossier titoli.
Tra i beni sottoposti ad amministrazione giudiziale ci sono alcuni locali noti a Firenze e a Prato come il bar pasticceria Caldana di Piazza Pietro Leopoldo, il bar pasticceria Il Barco e il ristorante pizzeria Pizzaman, entrambi in via Baracca ed il bar Becco d’Oca in via Francesco Ferrucci a Prato. Per gli investigatori sono “di particolare pregio gli immobili facenti parte del complesso immobiliare Il Teatro nel quartiere il Pino di Prato”.
Le indagini hanno consentito di accertare come l’imprenditore, con l’aiuto di prestanome, avesse effettuato, nel tempo, ingenti investimenti societari e immobiliari nelle due città. Il meccanismo utilizzato viene definito “finanziamento soci” e ha permesso alla società di disporre di tutto il denaro necessario senza ricorrere al mercato finanziario legale. “Questa liquidità – hanno spiegato gli investigatori – veniva travasata nelle casse delle imprese direttamente dai soci, quale forma di auto-finanziamento, mediante un sofisticato sistema di reimpiego di capitali acquisiti illecitamente”.