A giudicare da alcuni dei verdetti dell’Oscar di quest’anno, la più fastosa cerimonia con la quale l’industria del cinema, soprattutto americano, celebra se stessa è meno un momento di valorizzazione di quanto di meglio si è fatto nell’anno che una specie di camera di compensazione per regolare conti qua e là sospesi. I due premi assegnati a Leonardo Di Caprio e, vivaddio, a Ennio Morricone sembrano infatti più risarcimenti dovuti a precedenti mancati riconoscimenti che non premi attribuiti al lavoro nei rispettivi film di quest’anno.

Oscar 2016: 88° Academy Awards

Di Caprio era già alla quinta nomination e avrebbe certamente meritato l’Oscar almeno fin dal 2014, quando ebbe la nomination per The wolf of Wall Street (e certamente anche prima, per film per i quali non entrò nella cinquina finale come Titanic).
Anche la statuetta a Morricone era attesa: la colonna di The Hateful Eight è francamente assai meno memorabile di altre per le quali il maestro aveva preso la nomination. Nel 2012 un sondaggio di Variety aveva indicato come migliore colonna sonora di tutti i tempi quella dello stesso Morricone per Mission di Roland Joffé, davanti a colonne mitiche come quelle di John Williams per E.T. e di Bernard Herrmann per Psycho. Ma nel 1987, anno in cui Morricone era candidato al premio, la statuetta andò alla colonna di Round Midnight.

Più in generale da almeno mezzo secolo la musica di Morricone fa parte della memoria cinematografica universale: come si potrebbero pensare il west o l’America di Sergio Leone senza le sue colonne sonore o il profilo appuntito e l’andatura nervosa di Volontè in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto senza quel commento musicale altrettanto secco e tagliente che tutti abbiamo in mente?

Come spesso è accaduto in passato, anche quest’anno l’Oscar ha confermato di essere il momento di un bilancio più politico che estetico dell’industria: si ripianano vecchi debiti, si coglie l’occasione per stigmatizzare certe scelte politically incorrect, come ha fatto Chris Rock, conduttore della serata, che ha lamentato la mancanza di candidati di colore e difeso, pur con qualche goffaggine, i diritti delle minoranze, si sta attenti all’attualità. L’industria gira se il cinema sa annusare l’aria del tempo. Però non bisognerebbe esagerare, come si è fatto premiando con l’Oscar come miglior film Il caso Spotlight, un film appena onesto, scritto (bene, è vero, con una drammaturgia scandita e ben sfaccettata) e girato con una tecnica anni Settanta che fa pensare al ben altrimenti solido Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, dedicato a suo tempo al caso Watergate.

Non è pensabile che nell’anno di grazia 2016 il miglior film dell’anno sia il racconto di un’inchiesta sui preti pedofili nella diocesi di Boston, e che questo serva per chiamare in causa, nel momento della premiazione, perfino Papa Francesco. E il cinema come sorpresa, come stupore, come ricerca, in tutto questo dove sta?

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