Se continuano a correre così fretta, nel giro di un mese si mettono nel carniere i delegati necessari per ottenere la nomination: Donald Trump e Hillary Clinton non li ferma più nessuno, di sicuro non li ferma nessuno dei loro attuali rivali. Tirando le somme del Super-Martedì, si fa più in fretta a dire dove hanno perso che dove hanno vinto: hanno dominato primarie e assemblee.
Adesso, più che gli avversari, Donald deve temere il coniglio che potrebbe saltare fuori dal cilindro dei notabili del partito, che proprio non lo vogliono come candidato, perché non li rappresenta e perché – dicono – farebbe loro perdere le elezioni; e Hillary deve schivare lo scheletro che potrebbe caderle addosso da uno dei suoi armadi ben forniti.
I repubblicani votavano in 13 Stati, i democratici in 11, oltre che nel territorio delle Isole Samoa e all’estero (anche in Italia): i delegati in palio erano rispettivamente 595, quasi la metà dei 1.237 che ci vogliono per la nomination, e 865 fra i democratici, oltre un terzo dei 2.382 necessari.
La Clinton si impone in Alabama, Arkansas (lo Stato dove iniziò la saga politica familiare), Georgia, Massachusetts (il primo successo nel New England ‘liberal’, dove il suo antagonista Bernie Sanders è più forte), Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nel territorio delle isole Samoa.
Trump vince in Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Vermont e Virginia – mancano i dati del Wyoming, che, comunque, non assegna delegati.
Ai loro rivali, lasciano le briciole. Fra i democratici, il senatore Sanders vince nel suo Vermont e pure in Oklahoma, Minnesota e Colorado: un bottino discreto, che lo impegna a continuare la corsa “per cambiare l’America”, ma raccolto dove la popolazione è soprattutto bianca. Fra i repubblicani, il senatore Ted Cruz vince nel suo Texas – il terzo Stato dell’Unione – e nel vicino Oklahoma, oltre che in Alaska, mentre il senatore Marco Rubio vince finalmente in uno Stato, il Minnesota. Troppo poco, probabilmente, perché le loro speranze restino realmente vive. Gli altri due aspiranti repubblicani, Ben Carson, il guru nero, e John Kasich, il governatore dell’Ohio, non lasciano quasi traccia.
I commenti dei battistrada arrivano dalla Florida, dove già preparano il match del 15 marzo, decisivo per Rubio – se perde a casa sua, nessuno gli darà più credito. D’ora in avanti, in alcuni Stati importanti ed elettoralmente cruciali, come la Florida e l’Ohio, varrà la regola che chi vince prende tutti i delegati – e non la ripartizione proporzionale dei delegati in base ai voti ottenuti: arrivare secondi, lì, non conta nulla, e Rubio è il Belloni d’America.
Hillary, ringraziando gli elettori, rileva: “Questo Paese appartiene a tutti noi, non solo a chi guarda in una sola direzione, prega in una direzione o pensa in una direzione” (un identikit di Trump). E insiste nel porsi come erede di Obama, visto che gli elettori democratici chiedono continuità. E punta in alto: “La posta in gioco non è mai stata così alta, mentre il livello di quello che dicono i nostri rivali non è mai stato così basso”.
Il magnate risponde prendendola di mira sullo scandalo delle mail dall’account privato quando era segretario di Stato: “Quello che Hillary ha fatto è un atto criminale” (la fine della pubblicazione delle email sotto inchiesta coincide con il Super Martedì). Trump, introdotto sul palco dal suo ultimo e più clamoroso ‘acquisto’, il governatore del New Jersey ed ex rivale per la nomination Chris Christie, è anche caustico con Rubio: “Mi dispiace per lui, ha avuto una serata molto dura e ha pure speso un sacco di soldi”.
Lo showman è impermeabile alle polemiche e agli attacchi che lo investono di continuo, ma avverte già l’esigenza di smorzare un po’ i toni, presentandosi come “un conservatore di buon senso”, “uno che unisce”, pronto a scagliarsi “contro una sola persona, Hillary Clinton”, per evitare di spaventare i moderati. Ma non fa un passo indietro, ad esempio, sul muro al confine con il Messico, che sarà “come la Muraglia cinese”.
Il partito repubblicano resta però preoccupato: recenti sondaggi confermano che qualsiasi candidato democratico batterebbe Trump; e ci sono gruppi al lavoro per trovare un’alternativa allo showman – c’è chi pensa a un ritorno in campo del candidato 2012 Mitt Romney.
Cruz pretende ancora di poterlo battere. Ma non è proprio un’alternativa: è iper-conservatore, evangelico e, rispetto a Trump, è meno populista e, soprattutto, è meno simpatico; anzi, è francamente antipatico. La buona notizia, per lui, è che un giudice dell’Illinois respinge il sospetto di ineleggibilità perché nato in Canada da padre cubano (ma madre americana).